giovedì 2 giugno 2022


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LA SINDONE DI TORINO

di ERNESTO AYASSOT

 

PREMESSA

 

Sarà opportuno premettere, ad evitare incomprensioni, che la parola «sindone» che viene adoperata oggi come nome proprio della reliquia venerata a Torino in una cappella del Duomo, non è nome proprio di quella particolare reliquia, ma trasposizione in italiano del vocabolo greco sindôn, che indicava un telo, o lenzuolo, di lino. Il nome deriva dalla città di Sidone, nella Fenicia, anticamente famosa, non solo per il commercio del legno, ma anche per l'artigianato. L'uso del lino era antichissimo in Palestina, ancora prima della conquista di Giosuè. I tessuti di Sidone venivano largamente esportati da quei grandi navigatori, che erano i fenici. Di lì il nome di «sindoni» a quelle tele, molto in uso anche ai tempi di Gesù. Basti ricordare che il Vangelo di Marco chiama «sindone» anche il lenzuolo, o camicia, con cui si era coperto, il giovinetto che seguì di nascosto Gesù e i discepoli nel Getsemani, e che rimase nelle mani dei soldati che avevano tentato di acciuffarlo1.

La «Sindone» torinese non è che una delle varie «sindoni» che ebbero più o meno fortuna quali reliquie, ma è certamente quella che, pur essendo apparsa molto tardi, ha ottenuto maggior credito. Trattasi di un telo di lino, a forma di lunga striscia, tutta d'un pezzo, lunga metri 4,36 per m 1,10 di larghezza. Tessuto a mano, è di trama piuttosto fine e irregolare, con un disegno spigato e vi si intravvede la doppia immagine, frontale e dorsale, della figura martoriata di un uomo, piuttosto alto, con barba e capelli lunghi. Le immagini sono al negativo, come risultanti da una impronta e di color ruggine grigiastro. Vi sono inoltre, delle macchie rossastre, che si vorrebbero di sangue, sebbene, tutti gli esami ematologici siano risultati sempre negativi, e delle bruciature di fuoco, dovute agli incendi ai quali la reliquia scampò, come sarà narrato più avanti. La reliquia è conservata in una teca d'argento, racchiusa, a sua volta, in un'arca di legno posta su di un altare, al centro della cappella. È stata arrotolata su un cilindro di legno, mentre una fodera di taffetà rosso fu cucita sul verso della tela, come rinforzo, dalla principessa Maria Clotilde di Savoia, moglie di Gerolamo Napoleone, nel 1866. Di altri restauri sarà fatta menzione nel corso della storia che segue.

 

 

1. LA PASSIONE PER LE RELIQUIE E LE RELIQUIE DELLA PASSIONE

 

«I prelati non permettano che coloro i quali si recano nelle loro chiese a scopo di venerazione siano ingannati da immagini menzognere o da documenti falsi, come in vari luoghi si è solito fare, a fini di lucro»2. Con questo decreto (cap. 62), tanto perentorio quanto disatteso, il IV Concilio ecumenico Lateranense (1215), celebrato sotto il pontificato di Innocenzo III, tentava di mettere un argine alla invasione di reliquie che, dal vicino Oriente, i Crociati avevano gareggiato nel portare a casa per arricchirne le collezioni ecclesiastiche e private. Il saccheggio  di molte città del mondo greco-orientale - soprattutto quello di Costantinopoli (12-13 aprile 1204), messa a ferro, e fuoco al culmine della quarta Crociata - aveva fruttato ampio bottino ai conquistatori, i quali ritenevano di esaltare il carattere «sacro» delle loro imprese, riportando in patria, oltre ad ogni sorta di oggetti preziosi d'oro e d'argento, quanto potevano trovare di reliquie e di sacre immagini, destinate a costituire un capitale ancor più redditizio «e duraturo per i loro possessori, ecclesiastici o laici che fossero.

Particolarmente ricercate e maggiormente quotate erano le reliquie della «Passione»: «lacrime di Gesù o della Madonna», «gocce di sangue del Crocifisso», o persino «gocce dell'acqua sgorgata dalla ferita al costato», per non dire dei frammenti più o meno cospicui della croce, dei chiodi, delle spine della corona che era stata posta sul capo di Gesù ecc. …Tutto quello che la credula avidità dei Crociati faceva loro raccogliere nelle chiese e nei palazzi che mettevano a sacco, prima di darli alle fiamme, venne riportato in Occidente, ove si aggiunse al già notevole patrimonio di «sacre reliquie» che s'era andato arricchendo di secolo in secolo, soprattutto dopo l'esempio della madre di Costantino, Elena, la quale, nel 326 aveva trasformato il suo pellegrinaggio a Gerusalemme in una vera e propria caccia alle reliquie. Narrasi che sotto le rovine del tempio di Venere, che aveva fatto demolire, trovasse la croce del Cristo con relativi chiodi ed il «titolo», ossia la tavoletta con l'iscrizione trilingue che Pilato aveva fatto apporre alla croce. Una parte del «sacro» bottino la «pia» Elena l'aveva mandata in regalo al figlio Imperatore, il quale adoperò i chiodi, o almeno parte di essi, quali amuleti portafortuna, mettendoli «nel suo elmetto ed una parte nel freno del suo destriero, per sua difesa nelle battaglie». Quanto al «titolo» della croce, pare che Elena lo portasse a Roma, dove ella morì l'agosto dello stesso anno, lasciandolo in dotazione alla chiesa di «Santa Croce in Gerusalemme», costruita appunto per suo volere e che dalla reliquia prese il nome.

Tra le reliquie della crocifissione o comunque connesse con la passione del Signore, quelle che divennero oggetto di particolare venerazione furono le immagini riproducenti miracolosamente il volto, o tutta la persona di Gesù. Tra di esse la «Sindone» conservata a Torino è forse quella che assurse, sebbene assai più tardi, a maggior rinomanza e che conserva tuttora maggior prestigio, sebbene la sua origine non sia meno leggendaria di molte altre. Infatti altre immagini, pur reclamando autenticità, non sono riuscite ad avere, e soprattutto a conservare così a lungo, uguale venerazione da parte della chiesa. Poiché è impossibile menzionarle tutte, ricorderemo solamente alcune delle più famose, oggi ancora visibili in Italia.

Il Santo Sudario di Edessa, così chiamato perché, secondo la leggenda che lo rese famoso, avrebbe guarito da grave malattia il re Abgar di Edessa. Trattasi di una tela di lino sulla quale Gesù stesso, asciugandosi il volto, ne avrebbe miracolosamente lasciato l'impronta, perché venisse inviata al re che gliene aveva fatto pressante richiesta. Dopo oscure peripezie il telo sarebbe stato portato a Genova da Leonardo Montaldo nel 1384, e ancora oggi lo si venera nella chiesa dei Barnabiti di quella città, sul cui frontale sta scritto: «Ave Sacra Christi Facies» (salve, o sacro volto di Cristo).

Più conosciuto del precedente è certamente il «Volto della Veronica» che riprodurrebbe il volto di Gesù rimasto impresso in un telo col quale una pia donna di Gerusalemme avrebbe asciugato il volto di Gesù, mentre saliva faticosamente al Calvario. Vuole la leggenda che la donna si chiamasse Veronica, ma è molto più probabile che il nome derivi dalla contrazione di «Vera-Icone», ossia di vera-immagine. Secondo la leggenda, il telo sarebbe stato portato a Roma dalla «Veronica» medesima, che ne avrebbe fatto dono al vescovo Clemente. La reliquia è conservata in San Pietro a Roma, ma se ne fa menzione soltanto dopo l'anno mille. Nel tardo Medio Evo essa fu oggetto di particolare venerazione, sicché è citata ben due volte da Dante: nella Vita nova e nel canto 31° del Paradiso (versi 103 ss.) ed è ricordata anche dal Petrarca nel famoso sonetto «Movesi il vecchierel canuto e bianco...», che appunto viene a Roma...

 

per mirar la sembianza di Colui

ch'ancor lassù nel ciel vedere spera.

 

Un altro «Volto santo» citato da Dante, sebbene già ai suoi tempi meno famoso, si conserva a Lucca (vedi: Inferno, canto 21°, vv. 48-51). Sarebbe stato scolpito miracolosamente da angelica mano, così come sarebbe stata dipinta con analogo intervento miracoloso l'immagine del Salvatore detta il «Sancta Sanctorum» che si conserva nella Basilica Liberiana (Santa Maria Maggiore), una delle quattro Basiliche patriarcali di Roma. Questa immagine sarebbe stata commissionata a S. Luca dalla stessa madre di Gesù e dagli apostoli, ma, stante la difficoltà dell'opera, Luca l'avrebbe appena abbozzata ed una virtù misteriosa l'avrebbe miracolosamente completata.

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1 Secondo altri il termine greco sindôn (lenzuolo, abito) deriverebbe dal vocabolo ebraico sadîn (che indicava genericamente qualsiasi indumento di lino, anche un abito) e come tale era già usato dall'ebraismo ellenistico.

2 «Praelati vero de cetero non permittant ìllos, qui ad eorum ecclesias causa venerationis accedunt, vanis figmentis aut falsis decipi documentis, sicut et in plerisque locis occasione quaestus fieri consuevit» (cap. 62. «De reliquiis Sanctorum». Cfr. H. DENZINGER, A. SCHOENMETZER, Enchiridion Symbolorum, 32a ed., Roma, 1963, n. 819, p. 266.


(continua)