giovedì 2 giugno 2022

A DUE SETTIMANE DALL'INSEDIAMENTO DEL NUOVO VESCOVO DI TORINO, MONS. REPOLE

 "Pronto a lavorare con politica e società civile i giovani siano al centro, ma per davvero"

Domenico Agasso
La Stampa 26/5

Appena due settimane dopo l'insediamento da arcivescovo di Torino, monsignor Roberto Repole è volato a Roma per eleggere il suo nuovo capo, il presidente della Cei. «La nomina del cardinale Matteo Maria Zuppi proietta la Chiesa italiana in un dialogo a tutto campo con tutti, senza timori ma anche senza perdita di identità». Il pastore teologo tornerà in Piemonte alla fine della sua prima assemblea della Conferenza episcopale con un'iniezione di ulteriore energia «per ascoltare che cosa lo Spirito - anche attraverso la gente - indica, e lavorare insieme alla società civile e alla politica» per il bene della città e della diocesi. Con una priorità: «I giovani, che vanno rimessi al centro dei progetti in ogni ambito».

Che significato ha la nomina di Zuppi per la Chiesa e la società italiane?
«Predispone la Chiesa a un dialogo e confronto a tutto campo con chiunque, senza paure ma anche senza rischiare di dimenticare l'identità».

Nel suo «bagaglio» che cosa metterà quando tornerà alla missione appena iniziata di arcivescovo?

«La convinzione ancora più profonda di non essere solo, ma in comunione con preti, diaconi, religiose, religiosi e laici, con cui tutti insieme dobbiamo seguire ciò che lo Spirito ci sta dicendo per vivere il Vangelo e per poterlo trasmettere. Questo significherà fare delle scelte, che saranno tanto più autentiche e benefiche quanto più ci metteremo in ascolto dello Spirito e della gente».

Com'è stato l'impatto con il nuovo incarico?

«Mi ha dato un grande senso di gratitudine, perché ho scoperto tantissime persone che mi vogliono bene, me lo hanno dimostrato insieme alla loro stima. Mi è parso anche di vedere una comunità cristiana che coglie questa occasione per mostrare la gioia di camminare insieme. E mi sta dando il gusto di alcune dimensioni di me che nel ministero di prima dovevo tenere meno esposte, e che adesso si possono esprimere: prendersi cura della gente, la "paternità", sentire la responsabilità nei confronti di comunità e persone».

Dalla cattedra di San Massimo come vede Torino?

«In stato di mutamento: era una città industriale, oggi si sta trasformando in altro, con possibili evoluzioni molto belle sul piano sociale. Penso per esempio a come in questi anni la dimensione artistica sia stata rivalutata. E noto anche belle potenzialità civiche: se riusciremo a lavorare insieme con la società civile, come mi auguro e come penso, potremo soprattutto dare spazio in modo reale e non retorico ai giovani, rimettendoli al centro dei diversi progetti in ogni ambito».

Dialogare con il mondo significa anche un confronto con la politica: la Chiesa è chiamata a questo in un'epoca di grandi cambiamenti dal punto di vista sociale?

«Sì. Ma il dialogo ci può essere se ci è chiara l'identità dei cristiani e della Chiesa».

In che senso?

«Un dialogo in assenza di identità non è un vero dialogo. Per la Chiesa l'identità è la comunità dei discepoli di Gesù Cristo: così può risultare una forza profetica anche rispetto alle grandi decisioni sociali e politiche che si devono compiere. Molto spesso uno dei pericoli che si corre è immaginare che la fede sia solo qualcosa di privatistico, di individualista».

Invece che cos'è?

«È un atto personale ma ha delle incidenze sul modo di vivere e anche governare. Per esempio organizzare una società a partire dalla difesa dei più deboli, dei diritti di chi non li ha, dai principi di non violenza, della pace, del rispetto del creato, è una modalità di pensare anche cristianamente la convivenza civile».

Zuppi è la persona giusta per guidare la Chiesa anche in questo aspetto?

«Sì, e ha già dato prova di saperlo fare. E allo stesso tempo lo potrà essere nella misura in cui coinvolgerà - come credo sia sua intenzione - i carismi di tutti gli altri vescovi e chiese».

Da presidente della Cei ha subito indicato come parola chiave la «sinodalità»: rappresenta anche l'urgenza di rinforzare o ricreare il rapporto tra il clero e i laici?

«Sì. La sua sottolineatura dice che siamo in un tempo in cui non solo si sta svolgendo un cammino sinodale della Chiesa italiana, ma in cui si avverte che la corresponsabilità, pur differenziata, tra clero, religiose, religiosi e laici è una delle risorse che abbiamo per rispondere alle grandi sfide nel mondo attuale fortemente secolarizzato».

Zuppi è passato dalle periferie di Roma a via Aurelia: che cosa rappresenta la storia di un prete di strada che diventa guida dei vescovi?
«Il Vangelo quando è vissuto fino in fondo non estrania dalla quotidianità e quindi dalle sofferenze, dalle fatiche, dalle povertà degli uomini, anzi è capace ad abilitare donne e uomini a prendersi cura dei bisognosi. Non solo dei bisogni, ma dei bisognosi».

È una rivoluzione d'immagine e sostanza?
«Più che rivoluzione, è l'occasione di una esportazione di immagine e sostanza».

Che cosa intende?
«Guardando alla vita di molte comunità cristiane ci sono numerosi limiti, difetti, azioni non evangeliche. Ma questo non deve oscurare il tanto bene e la solidarietà che moltissimi cristiani propagano normalmente nei confronti degli ultimi. Ora abbiamo l'opportunità di dimostrare che in tante realtà la Chiesa pratica già questo atteggiamento di amore verso il prossimo, e possiamo potenziarlo ulteriormente manifestando ancora più attenzione a tutte le "ferite" di uomini e donne, sofferenze che sono sia di natura materiale ed economica, sia spirituale, soprattutto a causa del frequente smarrimento di fronte al senso della vita».