venerdì 3 giugno 2022

INERVISTA A DENIS MUKWEGE

 

A COLLOQUIO CON IL NOBEL PER LA PACE DENIS MUKWEGE

"Il mio Congo sotto il tallone di cento milizie assassine"

di Giusy Baioni

«Oggi vivo come un prigioniero nel mio ospedale, non posso uscire senza la scorta armata dei caschi blu, a causa delle minacce che subisco. La mia sola colpa è di chiedere giustizia per le vittime e lottare contro l’impunità dei crimini di guerra», Così racconta in esclusiva a Fq millennium Denis Mukwege, ginecologo congolese e premio Nobel per la pace 2018. Un premio ottenuto per l’attività di cura delle tantissime donne vittime di stupri di guerra, ma anche per la denuncia di quanto avviene nella Repubblica democratica del Congo, tormentata da una guerra infinita che ha prodotto - a seconda delle stime - dai 5 ai 10 milioni di morti dal 1996 ad oggi. La strage peggiore dopo la Seconda guerra mondiale.

Una guerra anomala, in cui in campo non ci sono due belligeranti, ma milizie che brutalizzano la popolazione civile per aggiudicarsi il controllo del territorio, mentre l'esercito regolare congolese, mal pagato ed equipaggiato, fatica a tener loro testa, quando non è direttamente corrotto o colluso. Denis Mukwege ha subito diversi attentati e tentativi di omicidio, uno dei quali è costato la vita al suo guardiano. «L’impunità» ci spiega «è un cancro che corrode la nostra società: ci sono molte verità nascoste sulla guerra della regione dei Grandi Laghi e tutti quelli che osano svelarle sono maltrattati o uccisi».

A non dover essere svelati sono i legami fra milizie, Paesi terzi e multinazionali. La Rd Congo ha un sottosuolo fra i più ricchi al mondo. I gruppi armati sono sovvenzionati per controllare le miniere artigianali da cui si estraggono oro, diamanti, ma anche minerali fondamentali per le industrie hi-tech: cassiterite, wolframite, coltan e cobalto, cui da poco si è aggiunto anche il litio, scoperto a ridosso di un parco nazionale. Senza contare gli enormi giacimenti di gas e petrolio, ancora pressoché inesplorati perché situati nel Virunga, il più antico parco naturale d'Africa. Ad avviare le esplorazioni (poi bloccate da una campagna internazionale) aveva provato l’ex presidente Joseph Kabila, che per un ventennio ha accumulato enormi fortune grazie alle concessioni minerarie assegnate a società con nomi anonimi e sedi in paradisi fiscali. Insediatosi sotto l'ombra di Washington, Kabila aveva poi voltato le spalle all'Occidente, firmando contratti miliardari con società cinesi. Il suo patrimonio offshore è stato lo scorso anno al centro del più grande scandalo finanziario d’Africa.

Il nuovo presidente Félix Tshisekedi, filo occidentale, ha iniziato un criticatissimo avvicinamento al piccolo ma potente vicino, il Rwanda di Paul Kagame. È soprattutto il Rwanda infatti a manovrare le oltre cento milizie che infestano le regioni orientali del Congo, armandole in cambio di minerali: ogni sito estrattivo artigianale è controllato da milizie che pagano pochi spiccioli ai minatori locali e trasportano oltre confine i sacchi che da lì, etichettati come prodotti in Rwanda, partono per la Cina.

Dopo il genocidio del 1994, il Rwanda ha utilizzato il senso di colpa occidentale per avere carta bianca. Kagame, formatosi allo United States Army Command and General
Staff College di Fort Leavenworth, Kansas, ha guidato il Fronte Patriottico Rwandese, che dal '94 ha preso il controllo del Paese delle mille colline. Da allora il piccolo Rwanda è assurto a guida regionale e poi continentale, ma a discapito delle libertà interne e a costo del sangue congolese: un faro di modernizzazione e sviluppo, ma non di vita democratica e rispetto dei diritti umani.

Tali violazioni e le loro connessioni con gli interessi internazionali sono dimostrate da anni nei rapporti di organizzazioni come Global Witness, Enough Project, International Crisis Group o Amnesty, ma anche dalle stesse Nazioni Unite, che hanno incaricato un gruppo di esperti di documentare le violazioni dei diritti umani e le loro cause. Esito ne è stato il Rapporto Mapping, pubblicato nel 2010 e da allora abbandonato in un cassetto: le prove di oltre 600 crimini di guerra, con i nomi dei responsabili, non hanno prodotto alcun effetto. La battaglia più ardua del dottor Mukwege è proprio la richiesta che venga istituito un Tribunale speciale internazionale per il Congo per porre fine all'impunità, che si autoalimenta, generando nuovi crimini e nuove vittime. Una battaglia che Mukwege ha portato fino all'Assemblea generale delle Nazioni unite e a

Oslo, nel suo discorso per il Nobel, quando aveva ribadito la necessità di rivelare i “nomi degli autori dei crimini contro l’umanità per impedire loro di continuare ad affliggere la regione".

Parole che disturbano i manovratori. Nemmeno il conferimento del Nobel ha messo al sicuro Mukwege. E laddove non arrivano le armi, giunge il fango: un anno fa, in un'intervista a France 24, Kagame ha affermato senza remore che "non ci sono stati crimini in Rd Congo "da parte né delle persone, né dei Paesi di cui si parla", aggiungendo che Mukwege sarebbe manovrato da forze nascoste".

Nonostante gli attacchi, Mukwege prosegue nella sua battaglia: «Stiamo subendo una guerra che ci è imposta dall’esterno da oltre vent'anni: non è una guerra fra tribù, non è una guerra fra religioni. È una guerra per controllare le risorse naturali. Gli stessi che hanno commesso efferatezze continuano a uccidere davanti agli occhi del mondo. Vi chiedo di sostenermi nel domandare giustizia, prima che i testimoni e le prove spariscano».

Millennium maggio 2022