mercoledì 20 novembre 2024

Ragazzi dentro


L’ultimo rapporto di Antigone è univoco: «In 22 mesi di governo di destra i minori in carcere sono aumentati del 48%. Eppure non c’è un allarme sociale rispetto alla devianza giovanile: nel 2023 i ragazzi denunciati e/o arrestati sono stati persino di meno (4,15%) rispetto all’anno precedente. La metà dei reati a carico di minorenni in istituti penali minorili (IPM) è contro il patrimonio. Però, nel frattempo, è entrato in vigore il decreto Caivano e i numeri di ragazzi in detenzione cautelare è esploso: sono il 67,7% per cento del totale dei detenuti minorenni» (https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/A%20UN%20ANNO%20DAL%20DL%20CAIVANO%20-%20Documenti%20Google.pdf).

La stessa incompatibilità dei giovani con il carcere degli adulti – sancita per legge nel 1988 – che consente ai minori diventati maggiorenni di restare in un IPM sino al compimento dei 25 anni, è stata negata, grazie al “decreto Caivano”, dal Ministero della Giustizia: nel 2023 ha disposto il trasferimento in carceri per adulti di 59 ragazzi fra i 18 e i 24 anni. Nel corso del 2024 l’ha rifatto: sono 123 gli ex minori trasferiti in mezzo agli adulti. L’ha rifatto specialmente dopo le rivolte a Casal di Marmo di Roma, al Beccaria di Milano e soprattutto al Ferrante Aporti di Torino. La motivazione poteva essere il sovraffollamento. Ma non è stato per questo. Dopo la contestazione nell’IPM torinese l’Osapp, sindacato di destra della polizia penitenziaria, ha indicato la “pericolosità” dei giovani adulti nel carcere minorile. Il ministero è andato nella stessa direzione, ma fornendo una ricostruzione tortuosa dei motivi della rivolta, dalla trama persino gialla.

Il guardasigilli Nordio intende procedere in spregio del processo minorile, il cui codice è stato approvato nel 1988 e che ha stabilito, appunto, l’incompatibilità dei giovani adulti detenuti con il carcere tout court. Vi ha provveduto con la solita legislazione di emergenza. Con il cosiddetto “decreto Caivano”, diventato legge il 15 settembre di un anno fa, aveva provocato, nel solo periodo settembre/ottobre 2023, + 123 arresti di minorenni, che continuano a salire. A metà settembre scorso erano 569 i giovanissimi in carcere, per due terzi in regime di custodia cautelare. Da questa contabilità mancano gli arresti dei giovani fra i 18-24 anni, da sempre inviati direttamente nelle carceri ordinarie.

Per comprendere l’impatto del “decreto Caivano”, a fine 2022 erano 352 i ragazzi detenuti negli istituti di pena minorili, saliti a 30 di più nove mesi dopo e prima del “raid” del governo che ha criminalizzato anche i quattordicenni e le loro famiglie con un provvedimento intestato al disagio giovanile. Nello stesso stile del “decreto Cutro”, dedicato a una tragedia del mare e ai mancati soccorsi, ma che in realtà ha azzerato la protezione umanitaria. Il “decreto Caivano” ha previsto il “daspo urbano”, la cui inadempienza comporta un reato punibile sino a tre anni di carcere, anche per i quattordicenni che devono allontanarsi da dove vivono e dalle zone che frequentano, inclusi locali pubblici. Inasprisce le pene per il piccolo spaccio e anche per il possesso di armi “improprie”, soprattutto prevede la custodia cautelare in carcere per previsioni di condanne al massimo di sei anni, mentre prima la soglia era di nove anni. Quatto quatto, il Guardasigilli del governo di destra sta ribaltando una legge di civiltà.

Dice Perla Allegri, ricercatrice universitaria e attivista di Antigone: «Dei 569 detenuti a settembre scorso 262 erano gli stranieri, tanti gli adolescenti soli. Come Antigone abbiamo avuto colloqui in carcere con alcuni di loro e appreso che avevano attraversato a piedi per mesi e mesi i monti della rotta balcanica. In Italia sono nuovamente finiti in strada e arrestati per piccoli reati, adesso sono trattati come pacchi spediti negli istituti minorili del Sud meno affollati, con la giustificazione che al Nord non hanno nessuno».

Esemplare la situazione torinese, evidenziata dall’inchiesta della clinica legale universitaria, commissionata dal garante delle persone private della libertà, Monica Gallo, relativa ai detenuti nati fra il 1997 e il 2004, in regime di custodia cautelare nella casa circondariale per adulti “Lorusso e Cutugno” fra gennaio e aprile 2022. La fascia d’età 18-24 anni sul totale della popolazione carceraria, in Italia del 5,8%, in Piemonte era del 6,55% e a Torino del 10% (135 su 1372 detenuti). Da 149 interviste è emersa una radiografia significativa: il 74,50% dei detenuti era di origine straniera, per lo più provenienti da Marocco, Tunisia, Senegal e Nigeria. Non aveva permesso di soggiorno l’88,30%. Ancora: il 30,20% viveva in famiglia prima dell’arresto, il 20,81% in un’abitazione privata (evidentemente condivisa con altri), mentre i migranti ex minorenni giunti soli in Italia erano più della metà: il 54,05%. Il 51,68% era in possesso di licenza media o di un titolo di studio analogo conseguito nei paesi di origine, il 14,44% si era diplomato al termine di corsi triennali. Il 34,09% era stato preso in carico dai servizi sociali torinesi. Quasi la metà, il 47,73%, era seguito prima dell’arresto dai SerD (i servizi contro le dipendenze) e il 6,82% dai centri di salute mentale. Per tanti ragazzi l’accesso ai servizi sanitari è stato reso possibile con l’ingresso in carcere. Ma l’abbandono e l’isolamento è proseguito dietro le sbarre: il 53,69% non ha avuto un solo colloquio in carcere con persone esterne, familiari e no. E il 44,97% non ha incontrato nemmeno “figure di supporto” (nel carcere torinese vi è 1 educatore per 110 detenuti). I compagni di cella erano, nel 42,24% dei casi, di nazionalità diversa e, nel 40% di età fra i 30 e i 50 anni. Perla Allegri fa notare che, rispetto al 2022, con l’aumento del sovraffollamento in carcere, l’attenzione delle direzioni delle carceri a tenere separati il più possibile i giovani adulti dai più vecchi (quelli che “comandano” nei bracci) è venuta meno e la promiscuità dei detenuti è decisamente salita. Con la conseguenza, tra l’altro, dell’aumento delle violenze sessuali, come in ogni altra istituzione totale. I Tso in carcere si aggirano sui 200 l’anno e – come ha rivelato Monica Gallo in un recente incontro sull’incompatibilità dei giovani con il carcere degli adulti – il 30% è ormai effettuato su minori. Con un aumento esponenziale del 1425% negli ultimi anni.

Nel medesimo incontro Sergio Durando, referente della Pastorale migranti dell’Arcidiocesi torinese, ha tratteggiato il cerchio chiuso che identifica la vita di tanti adolescenti stranieri non accompagnati (MSNA): «Abbiamo esteso il nostro ufficio alle strade. Incontriamo, incontro quotidianamente ragazzi senza documenti e accoglienza, che hanno nella strada l’unica risorsa. Dormono anche in strada. E assumono farmaci antiepilettici, come Rivotril e Lyrica, ci bevono su alcolici, si sballano per contrastare il malessere, quando non entrano nel giro della droga come spacciatori e spesso ne diventano essi stessi dipendenti. Senza risorse per una accoglienza dignitosa dei minori soli e più fragili, l’approdo al carcere di tanti sembra inevitabile, ed è gravissimo.

«Costa pure molto di più alla collettività». Gli ha fatto da contraltare Franco Prina, professore universitario e fra gli esperti sul tema più stimati: «Questi ragazzi arrivano da noi pieni di rabbia. Perché in tutto il percorso migratorio, durato anche anni e anni, hanno incontrato solo rappresentanti di istituzioni che li hanno massacrati. Non c’è più fiducia da parte loro, non c’è nemmeno comunicazione.
Un primo obiettivo, dentro il carcere, è di riservare un trattamento diverso ai giovani adulti fra i 18 e i 24 anni dedicando loro una struttura detentiva che li separi pure dai minori ma soprattutto dagli over 25
». Prina ha citato l’ex sindaco torinese Diego Novelli al tempo dell’avvio del progetto pilota del Ferrante Aporti: «Se il carcere minorile è chiuso dentro la città, dovremo portare la città dentro il carcere». Ciò, oggi, vale anche per i giovani adulti detenuti. Perché non coinvolgerli, per il tempo minimo, per tanti, di una detenzione residuale in un progetto di “casa circondariale a sicurezza attenuata”?

Alberto Gaino - Volerelaluna, 14 novembre 2024

Le minoranze religiose continuano a essere prese di mira in Myanmar


«Nel 2024, l’escalation del conflitto in Myanmar ha continuato a influenzare negativamente le condizioni per la libertà di religione o credo», si legge in un rapporto aggiornato della Commissione statunitense per la libertà religiosa internazionale, pubblicato il 31 ottobre.
«Dal colpo di stato del febbraio 2021, l’esercito birmano e il suo Consiglio di amministrazione statale (SAC) hanno perseguito un’aggressiva campagna militare per mantenere l’autorità, che ha incluso l’attacco a leader religiosi, comunità e siti e ha esacerbato le tensioni sociali tra le comunità etnoreligiose».

Oltre 3 milioni di persone sfollate
A causa della violenza in Myanmar, oltre 3 milioni di persone continuano a essere sfollate all’interno dei confini della nazione o a vivere come rifugiati lontano dalla loro patria, sottolinea il rapporto.
A marzo, esperti indipendenti hanno valutato che l’esercito birmano e il suo Consiglio di amministrazione statale non avevano un controllo stabile dell’86% del territorio del Myanmar e del 67% della popolazione. Nei mesi successivi, la situazione è peggiorata a vantaggio di gruppi di resistenza, tra cui organizzazioni armate etniche, che nell’ultimo anno hanno consolidato il controllo in alcune regioni, compresi i valichi di frontiera.

«L’instabilità nello Stato Kachin ha reso ancora più vulnerabili le comunità di minoranza cristiana e i membri della maggioranza buddista nella regione, le cui comunità, luoghi di culto e leader religiosi l’esercito birmano prende di mira per il loro sostegno alla resistenza», si legge ancora nel rapporto.

I leader delle minoranze religiose ed etniche presi di mira
L’aggiornamento della Commissione indica anche esempi di militari birmani che hanno preso di mira i leader delle minoranze etnoreligiose, come Hkalam Samson, ex presidente e segretario generale della Kachin Baptist Convention. Ad aprile, è stato rilasciato brevemente dopo 16 mesi di prigione, ma è stato poi nuovamente preso in custodia per essere interrogato. Samson è stato infine rilasciato dalla detenzione a luglio.

Il rapporto ha anche segnalato la morte violenta a marzo di Nammye Hkun Jaw Li, un ministro battista nella township di Magaung nello Stato Kachin, così come l’uccisione di un prete cattolico mentre stava celebrando la messa nel villaggio di Mohnyin.
L’esercito ha preso di mira chiese e altri siti religiosi, tra cui una chiesa battista e una chiesa cattolica a metà maggio nella township di Tonzang nello Stato Chin.

Tera Kouba, ministro dei ministeri internazionali/asiatici presso la First Baptist Church di San Antonio, ha confermato l’attacco alle istituzioni religiose. Kouba, cresciuta in Myanmar come figlia di un pastore battista Karen, ha ancora familiari e amici nella sua terra natale. Da loro ha saputo di una scuola biblica nello Stato Karen che ha dovuto trasferirsi da un’area urbana a una località remota.

Giovani arruolati forzatamente nell’esercito
L’esercito birmano ha subito significative perdite di personale negli ultimi quattro anni. Così, a febbraio, è entrata in vigore una legge sulla coscrizione per rimpinguare i ranghi ridotti; tale legge rende gli uomini di età compresa tra 18 e 35 anni e le donne di età compresa tra 18 e 27 anni soggetti alla leva militare.

Di conseguenza, molte chiese in Myanmar hanno perso una generazione che è fuggita dal paese, è stata arrestata o è stata costretta a prestare servizio militare contro la sua volontà, ha riferito ancora Kouba. Da familiari e amici, ha sentito resoconti di giovani portati via dalle loro case nel cuore della notte, per essere costretti a prestare servizio militare o arrestati.

La crisi dei rifugiati continua
La crisi dei rifugiati già esistente è continuata negli ultimi mesi, con “nuove ondate di rifugiati, anche da altre comunità di minoranze etniche e religiose come le comunità Chin, Kachin e Karenni», si afferma ancora nel rapporto.

Oltre 958.000 rifugiati Rohingya sono fuggiti dal Myanmar al Bangladesh diversi anni fa e l’India ha accolto circa 53.000 cittadini birmani, per lo più dalle comunità cristiane Chin e Zomi.
«Oltre al Bangladesh e all’India, le maggiori concentrazioni di coloro che hanno cercato rifugio o asilo dalla Birmania si trovano in Malesia, Thailandia e Indonesia», afferma la Commissione.

Nell’aggiornamento di ottobre, la Commissione ha raccomandato al governo degli Stati Uniti di coinvolgere il governo di unità nazionale pro-democrazia in Myanmar, così come le organizzazioni armate etniche nel paese, per dare priorità alle questioni di libertà religiosa come prerequisito per il riconoscimento ufficiale e un impegno sostanziale, e di collaborare con i governi regionali in Bangladesh, India, Indonesia, Malesia e Thailandia per assistere le comunità di rifugiati birmani.

Nel suo rapporto annuale del 2024 la Commissione ha invitato il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti a designare la Birmania come Paese di particolare preoccupazione, citando le sue «violazioni sistemiche, continue e gravi della libertà religiosa».

Da Riforma, 11 Novembre 2024

Domani, 13 novembre

Canterbury

L’arcivescovo si dimette.  Non ha denunciato gli abusi

 

Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e massima autorità spirituale della chiesa anglicana, si è dimesso. Dopo la nomina, nel 2013, è stato informato degli abusi sessuali perpetrati da un avvocato e membro di un’organizzazione benefia cristiana, John Smith. A Welby è stato detto che la polizia sapeva e non ha denunciato: «Ho creduto erroneamente che sarebbe seguita una soluzione adeguata». Per questo ha detto che deve assumersi «la responsabilità personale e istituzionale» per il periodo 2013-2024. È stato un report indipendente a rivelare, pochi giorni fa, gli abusi di Smyth su 130 minori durante i campi che si sono svolti negli anni Settanta e Ottanta in Regno Unito poi - con la consapevolezza della Chiesa - in Zimbawe e Sudafrica.

martedì 19 novembre 2024

Gruppo biblico dedicato alla lettura del Vangelo di Matteo oggi, martedì 19 ottobre


Care amiche e amici,

Questa sera ci incontreremo alle ore 18:00 per leggere e commentare insieme il capitolo 10 del Vangelo di Matteo.

Ci si potrà collegare a partire dalle ore 17:45.

Questo è il LINK per il collegamento:

meet.google.com/ehv-oyaj-iue

Un caro saluto.

Sergio

DERIO OLIVERO

Insegnamento, religioni, spazio laico

Verso un nuovo statuto dell’ora di religione nella scuola pubblica

 

L'assetto dell'insegnamento della religione cattolica in Italia ha conosciuto una significativa evoluzione dai Patti lateranensi del 1929 alla loro revisione nel Concordato del 1984 in considerazione dei profondi mutamenti culturali ed ecclesiali registrati in quei decenni. Mons. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo e presidente della Commissione Episcopale per l'Ecumenismo e il dialogo interreligioso, si chiede se i nuovi scenari sociali e religiosi maturati negli ultimi quaranta anni non giustifichino un ulteriore, profondo, coraggioso ripensamento in direzione di un insegnamento della religione in chiave interreligiosa. Preso atto della nuova situazione di pluralismo religioso e della 'fine della cristianità', anche il ruolo della religione, e quindi della sua presenza nella scuola, è chiamato a ripensarsi e proporsi come «luogo dove le religioni sono riconosciute, dove il fenomeno religioso non viene taciuto, ma conosciuto e accolto come fattore capace di generare umanità e di costruire legami fraterni. Nello stesso tempo un luogo non delegato a “qualcuno”, ma assunto dallo stato e dalle religioni, senza concorrenza e senza paura di invasioni di campo, nel rispetto delle tradizioni».

Da alcuni anni ho il piacere di occuparmi di ecumenismo e dialogo interreligioso. Ho imparato molte cose, anche in riferimento alla storia dell'ecumenismo. Ma soprattutto sono stimolato ad aprire gli occhi sulla nuova configurazione della società. Mi accompagnano molte domande: «Quale forma di Chiesa in questa società? Come devono muoversi i cristiani cattolici nell’Iltalia di oggi? Quali scelte possono compiere per essere all’altezza del giorno che vivono? Come devono rapportarsi con i non credenti e con i credenti di altre confessioni e religioni per essere fedeli al Vangelo? Come essere “Chiesa in uscita” nello spazio pubblico?» Porto in cuore queste domande, che sono le stesse che accompagnano il cammino sinodale della Chiesa Italiana1.

In questo articolo, alla luce di tali interrogativi, desidero proporre alcuni stimoli in merito a questioni concrete come l'insegnamento della religione e il rapporto delle religioni con lo spazio laico.

Sono passati 40 anni dalla stipula del nuovo Concordato tra lo Stato Italiano e la Chiesa cattolica che regola anche la modalità dell’insegnamento della religione nella scuola italiana. L’ora di religione, pur rimanendo confessionale, diventava facoltativa nel rispetto delle libertà personali della famiglia e dell’alunno. L’insegnamento della religione a scuola non era più «fondamento e coronamento» dell’iistruzione pubblica come prevedeva il Concordato del 1929; ora lo Stato riconosceva il valore della cultura religiosa e i princípi del cattolicesimo come parte del «patrimonio storico del popolo italiano». Questo giustificava la discontinuità con il paradigma precedente. Ora mi chiedo: la società italiana è ancora descrivibile nei termini e nelle considerazioni di quarant’anni fa? In questo «cambiamento d’epoca» non siamo chiamati ad avere il coraggio di cambiamenti all’altezza delle sfide che viviamo, anche in ordine all’insegnamento della religione nelle scuole?

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1Queste domande possono essere accompagnate e trovare lievito con l'aiuto di questa bibliografia essenziale: Aa.Vv., Religioni e ospitalità, Edizioni Antonianum, Roma 2021; M. Dal Corso - B. Salvarani, Ho parlato chiaramente al mondo. Per una teologia pabblica ecumenica, Cittadella, Assisi 2020; M. Dal Corso (ed), Teologia dell’ospitalità, Queriniana, Brescia 2019; T. Halik, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare. Vita e Pensiero, Milano 2021; D. Oliveto, Laicità e religioni. Educare al futuro, Effatà, Cantalupa (TO) 2024; E. Pace, Diversità e plaralismo religioso, Pazzini, Villa Verucchio (RN) 2021.

 

Un pluralismo nuovo

Tra le ragioni che chiedono di pensare a un nuovo statuto dell'ora di religione c'è la consapevolezza di vivere un pluralismo inedito. Anche un tempo, in Italia, esistevano altre religioni ed erano presenti persone non credenti. Nel 1935, per fare un esempio, la quasi totalità (99,60%) della popolazione presente (41.771.000) era costituita da cattolici. Gli altri (gli a-cattolici secondo il linguaggio dell'epoca) erano appena lo 0,4 per cento (protestanti, ebrei e 18.000 non appartenenti ad alcuna religione). Oggi la diversità religiosa e culturale è decisamente più articolata: oltre ai protestanti e agli ebrei abbiamo musulmani (circa due milioni), ortodossi (circa 1,7 milioni), Testimoni di Geova (oltre 400.000), induisti (200 mila), buddhisti (300 mila), sikh (75 mila), mormoni (25 mila), baha’i (4.000) e altre comunità religiose (92 mila) per un totale di oltre cinque milioni e mezzo di (diversamente credenti). È il nuovo pluralismo, che registra un cambiamento importante: dalla religione degli italiani all'Italia delle religioni2. Può piacere o meno, ma non si può ignorare. Non è un fenomeno passeggero. Dobbiamo metterlo in conto e ridisegnare il nostro modo di stare al mondo dentro tale pluralismo. I cristiani, per natura, stanno nel mondo e si prendono cura del mondo. Pertanto, nel corso della storia, 'inventano' forme diverse di Chiesa per poter essere a servizio del mondo nel modo più appropriato. In ogni epoca ‘indossano il grembiule’ e lavano i piedi, cioè cercano forme inedite per esprimere il loro amore e la loro cura. A iniziare dalla capacità di descrivere e riconoscere il mondo per quello che è. Oggi la presenza plurale delle religioni è descritta con varie espressioni: «mercato religioso aperto», «credere senza  appartenere», «religiosità à la carte», «fusion»... Con ogni probabilità il pluralismo religioso che verrà sarà contrassegnato dalla temporalità più che dall’appartenenza e verterà più sulla ricerca spirituale e meno su una  religione istituzionalizzata. Una religiosità del pellegrino e del convertito, più che del praticante3

Come ripensare l’insegnamento della religione in questo nuovo contesto? Sicuramente sarà necessario un insegnamento che riconosca e includa le altre confessioni e le altre religioni. Inoltre sarà utile ipotizzare un insegnamento capace di non escludere coloro che sono in ricerca pur non appartenendo ad alcuna religione (quelli che T. Halik chiama «nones»)4.

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2 Vedi B. Salvarani, Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell'Occidente post-cristiano, Laterza, Bari 2023, pp. 56-85.

3Vedi D. Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito: le religioni in movimento, Il Mulino,  Bologna 2003.

4Cfr. T. Halik, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggío di cambiare, Vita e Pensiero, Milano  2021.

 

La città post-secolare

La secolarizzazione è in genere descritta come una situazione sociale in cui è si manifesta un triplice declino: dell'importanza della religione negli spazi  pubblici, del riconoscimento pubblico delle istituzioni religiose e, infine, delle pratiche e dell'espressione religiosa. Qra stiamo vivendo una nuova  stagione, detta post-secolare. Certamente non sta aumentando la pratica (soprattutto dopo il Covid-19). Ma il fenomeno religioso ha un'altra incidenza. Nell'epoca del ritorno del sacro i simboli religiosi e le comunità religiose pretendono udienza e chiedono di essere riconosciuti nello spazio pubblico. Qua e là si generano episodi di fondamentalismo sia da parte delle religioni sia da parte del mondo laico. É urgente affrontare questa situazione mettendoci in dialogo, liberi dai pregiudizi e dall'arroccamento sugli spazi conquistati nel passato. Non si tratta di difendere il passato, ma di costruire il futuro.

In Italia, la città post-secolare è quella che vede una ripresa non tanto delle pratiche religiose tradizionali, ma di dinamiche di ricerca religiosa e spirituale per gran parte inedite e imprevedibili. È possibile imbattersi in una crescente disponibilità verso pratiche spirituali non necessariamente religiose in senso stretto. L’incidenza del 'welfare religioso’ tende ad aumentare, l’offerta religiosa è sempre più diversificata. Incontriamo la nuova religiosità degli immigrati, dovendo fare i conti con il ‘Dio dei migranti'. Nello stesso tempo permane lo spirito della vecchia secolarizzazione che continua a regolare il rapporto tra Stato e Chiesa/e. Tutta questa realtà interpella la nostra Chiesa. Oscilliamo tra la rivincita di Dio (G. Kepel) e la nostalgia per l'età della cristianità. In quest’epoca complessa e liquida, in questo tempo di «umanesimo esclusivo» (Ch. Taylor) e di «ritorno del sacro», in questo tempo inquieto e in ricerca dove ritorna ‘in pagina' il fenomeno religioso, diventa urgente superare l'analfabetismo religioso. Soprattutto diventa necessario cogliere la rilevanza pubblica delle religioni quale contributo al bene comune dentro la città plurale, quale serio contributo alla coesione sociale. In questa prospettiva l’insegnamento della  religione nella scuola diventa determinante. Non è una materia facoltativa, da concedere agli appartenenti a una confessione. É sempre più una materia (per tutti), per offrire chiavi ermeneutiche della realtà e chiavi capaci di generare cammini di dialogo all’interno di un nuovo spazio pubblico, per la costruzione di una nuova società e per la costruzione di un’etica globale.

 

Quale insegnamento della religione?

Per rispondere alla domanda desidero partire da questa citazione:

Non c’è mutazione che non sia governabile. Abbandonare il paradigma dello scontro di civiltà e accettare l’idea di una mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade così com’è, senza lasciarci l’orma del nostro passo. Quel che  diventeremo continua a esser figlio di ciò che vorremo diventare. [...] Detto in termini  elementari, credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza di un viaggio oscuro. I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora sempre pronunciate, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. É un gesto di difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo5.

Che meraviglia immaginare una Chiesa non tanto intenta a “mettersi in salvo” dalla mutazione, ma intenta a stare dentro la mutazione. Una Chiesa che non cerca un riparo, uno spazio neutro per preservare intatta la propria identità, bensì una Chiesa che cerca di ridiventare se stessa nella mutazione, in un tempo nuovo. Una Chiesa che non ha paura di mettere a disposizione di tutti ‘ciò che gli è caro’. Una Chiesa che semina una ‘semente preziosa' non nel terreno che si inventa, ma nel terreno che trova. Con la fiducia che proprio il terreno ‘che trova’ sarà in grado di produrre una messe nuova. Proprio come dice Papa Francesco: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» (EG 49). Una Chiesa che sa essere ‘minoranza generativa’, capace di stare alla pari con tutti, come 'una tra i molti'. Dunque una Chiesa che dialoga con la cultura, senza pregiudizi e senza prevaricazione. E dialoga con i ‘diversamente credenti’, senza pregiudizi e senza prevaricazione. Ed  entra con questo stile nello spazio pubblico. In punta di piedi. Con passione, ma senza prevaricazione. Per contribuire al cammino della giustizia e per collaborare alla formazione dei cittadini e alla coesione sociale. Con il suo incredibile bagaglio di cultura e, soprattutto, con il suo incredibile potenziale di speranza e di senso.

Con questo stile la Chiesa desidera entrare nella scuola. Per contribuire non tanto a educare dei credenti, ma dei cittadini. Cittadini capaci di abitare questo tempo, plurale e post-secolare. Capaci di capire questo tempo e di impegnarsi a costruire una società in dialogo nelle differenze, in pace, In questa luce è urgente ripensare sia l’idea di ‘laicità’ che ‘”idea di ‘identità credente'. Per uscire dalla loro assurda incornunicabilità, ormai non più accettabile. Per fare un passo avanti rispetto all'ipotesi metodologica della formula «etsi deus non daretur”. ll cittadino di oggi deve essere quello che si confronta con il fatto religioso, non quello che lo evita. Il pluralismo religioso, quale tema educativo, aiuta a ripensare la laicità in termini inclusivi piuttosto che esclusivi o per sottrazione. Ma obbliga anche a cercare una nuova idea di identità credente, non separata dalla societa, non contro la società, ma capace di auto-comprendersi nel confronto con la pluralità religiosa e la post-secolarità. In questa prospettiva si può immaginare l’insegnamento della religione in chiave interreligiosa. Anzi, di più: se la cultura religiosa è chiamata ad essere parte delle conoscenze e delle competenze dello studente in formazione, possiamo ipotizzare un insegnamento della religione per tutti, superando l’equivoco della facoltatività. La conoscenza del fenomeno religioso presentato in chiave plurale abiliterà lo studente a diventare un cittadino in grado di comprendere la società in cui sarà chiamato a vivere e lo allenerà a essere capace di dire sé senza negare l’altro. Di dire sé, senza mettere tra parentesi l'altro e senza mettere tra parentesi l’Altro. Credente o non credente saprà stare con credenti e non credenti, senza preclusioni, pregiudizi, prevaricazioni. E sarà aiutato a superare dannose divisioni fra “differenti, perché abilitato a conoscere ed apprezzare le differenze. Dunque possiamo pensare l’insegnamento della religione a scuola non più come «fondamento e coronamento» dell’istruzione (Concordato del 1929), ma neanche più giustificato sul «patrimonio storico» del popolo italiano (Nuovo Concordato del 1984). Possiamo immaginare un nuovo statuto che sappia interpretare il «cambiamento d’epoca», la metamorfosi della religione, il cambiamento della religione in spiritualità e l’aumento di coloro che non si riconoscono in nessuna religione. Un nuovo statuto che parli anche ai ‘cercatori di spiritualità’, che favorisca quello che T. Halik chiama il terzo ecumenismo (dopo quello tra le Chiese e il dialogo interreligioso, anche quello con i «nones»)6. Uno statuto che contribuisca alla creazione di una civitas ecumenica, capace di riconoscere ed apprezzare le didifferenze. In questa luce la Chiesa Cattolica potrà fare un “passo indietro”,  rinunciando a uno spazio che le spetta di diritto in nome del Concordato, per aiutare la società a fare un passo avanti. Per la nostra Chiesa questa è una sfida importante. Per essere ancora un soggetto attivo nella costruzione della società di domani. Non una (riserva indiana, o una (cittadella fortificata, ma una minoranza preziosa e generativa.

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5 A. Baricco, Ibarbari. Feltrinelli, Milano 2006, pp.I79-180

 

Le religioni nello spazio pubblico

Il discorso relativo all'insegnamento della religione, come abbiamo detto, si colloca dentro un contesto più ampio. In Italia si è passati dal ‘monopolio’ della religione cattolica al pluralismo religioso. Inoltre il fenomeno religioso ha mutato forma. Il ruolo sociologico e politico della religione si è quasi dissolto, ma non si è interrotta la ricerca di senso che la religione continua a offrire a tutti i ricercatori. Quella che si va aprendo potrebbe risultare una nuova era per le religioni, e in particolare per il cristianesimo. Se questa analisi è corretta, diversamente dalla stagione della cristianità, il ruolo pubblico della religione è chiamato a ripensarsi e a farlo radicalmente. Se le chiese e le religioni vorranno parlare pubblicamente, lo dovranno fare in chiave ecumenica e interreligiosa. Oggi credere è un’opzione personale che chiede alle religioni non lo spirito di concorrenza, ma quello della condivisione. Oggi la società plurale non sopporta imposizioni da monopolio, ma aspetta sorgenti di senso. Le religioni dovranno lavorare non sul proselitismo, ma sull'attrazione (Benedetto XVI). Oggi lo spazio laico, sicuramente libero, liquido, plurale, soffre spesso di una neutralità vuota, fatta di sottrazione più che di creazione. Le religioni, in punta di piedi, potranno offrire con grande umiltà un preziosissimo contributo di senso, di bellezza, di fraternità, di coesione sociale. Questo è il tempo e lo spazio in cui le religioni possono concorrere a costruire un futuro per tutti, stando nello spazio pubblico non per rivendicare diritti del passato, ma per aiutare a costruire una grammatica di senso per la vita sul pianeta. Vogliamo, in fondo, provare a trasformare i problemi in occasioni di crescita scegliendo il pluralismo religioso non solo come realtà di fatto, ma come principio di un nuovo paradigma di convivenza.

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6 Vedi T. Halik, La Chiesa nel cambiamento. Trentatré tesi, in «La Rivista del Clero Italiano», 103 (2022/12), pp. 833-848.

 

Il futuro del cristianesimo

In questa luce qual è il futuro del cristianesimo? Rispondo a questa domanda facendo mie le parole di un valido teologo: Se nella storia del cristianesimo continua l’”incarnazione, allora dobbiamo essere pronti al fatto che Cristo entri ancora e in modo creativo nel corpo della nostra storia, in culture diverse. Se nella storia continua il dramma della crocifissione, allora dovremmo imparare ad accettare che molte forme di cristianesimo moriranno dolorosamente e che alla morte appartiene anche il momento oscuro dell’abbandono, della ‘discesa agli inferi’. Se nella storia continua il mistero della resurrezione, allora dovremmo essere pronti a cercare Cristo non fra i morti, fra le tombe vuote del passato, ma scoprire la ‘Galilea di oggi’ (una ‘Galilea pagana’) dove lo ritroveremo sorprendentemente trasformato. Sono convinto che la Galilea di oggi sia quel mondo dei ‘nones’ al di fuori dei confini visibili della Chiesa. Se la Chiesa è nata dall’evento della Pentecoste e questo evento continua nella storia, allora bisogna sforzarsi di parlare in modo da essere compresi da persone di culture, nazioni, lingue diverse: e la Chiesa deve parlare in modo comprensibile, ma non banalizzato, deve parlare soprattutto in modo credibile, 'cuore a cuore'. Deve essere un luogo di incontro e dialogo, sorgente di riconciliazione e di pace [...]. Il rispetto per le differenze e l'accettazione degli altri nella loro diversità sono essenziali non soltanto nelle relazioni fra individui, ma anche nelle relazioni fra popoli, culture e religioni. L'ecumenismo è una delle forme non omissibili dell'amore cristiano. É una delle facce più credibili e convincenti del cristianesimo. Se la Chiesa cattolica deve essere veramente cattolica deve completare quella conversione cominciata con il Concilio Vaticano II: la conversione dal cattolicesimo alla cattolicità.

Tutte le Chiese e tutti i cristiani che recitano la professione di fede apostolica o niceno-costantinopolitana si riconoscono nel dovere di coltivare la cattolicità del cristianesimo; quell’apertura della Chiesa che rispecchia le braccia spalancate di Cristo sulla croce. Nessuno è al di fuori dell'amore di Cristo7.

 

Ospitalità, fraternità e dialogo

Il capitolo ottavo dell’enciclica Fratelli tutti ha un titolo che e già un programma: Le religioni al servizio della fraternità universale8. Ospitalità e fratellanza sono il contributo specifico delle religioni alla società. Per questo si impegnano al dialogo. Tra le religioni è possibile un cammino di pace. Il punto di partenza dev'essere lo sguardo di Dio. Perché «Dio non guarda con gli occhi, Dio guarda con il cuore». E l’amore di Dio è lo stesso per ogni persona, di qualunque religione sia. E se è ateo, è lo stesso amore. Quando arriverà l’ultimo giorno e ci sarà sulla terra la luce sufficiente per poter vedere le cose come sono, avremo parecchie sorprese9.

Crediamo che siamo figli e figlie dello stesso Padre. Tale verità fonda il valore di ogni persona indipendentemente dal suo stato sociale, culturale e da qualsiasi appartenenza religiosa e rivela che l’impegno per la pratica fraterna e ospitale è compito religioso oltre che etico. La figliolanza divina fonda la teologia dell'ospitalità e della fratellanza. I diritti della persona non nascono solo da un'etica condivisa, ma sono espressione del carattere trascendente dell’umano riletto in chiave religiosa. L’impegno per la giustizia, per la pace, per la coesione sociale dice qualcosa di decisivo in relazione alla verità delle religioni e del necessario dialogo tra esse. La vocazione profetica delle Chiese e delle religioni non deriva da una qualche ideologia alternativa, ma si fonda su questa verità: siamo tutti gli ospitati su questa terra. Alla luce di questa certezza Papa Francesco nell'enciclica Fratelli tutti (capitolo secondo) fonda biblicamente la fratellanza sulla parabola del Buon Samaritano. La parabola gli serve per fondare la fraternità non tanto sulla paternità divina, ma sulla prossimità etica messa in campo dal samaritano. Tale scelta ci sembra aiuti a fare della fraternità un ‘discorso pubblico’ perché non chiede l’adesione a una verità delle religioni, ma chiede di rispondere ai bisogni dell’altro. Al n. 285 scrive: «dichiariamo di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio».

Ecco il cammino tracciato per la nostra Chiesa. Un cammino che accoglie l'ecumenismo e il dialogo interreligioso come essenziali. Un cammino che ci stimola a ‘generare’, nello spazio pubblico il dialogo, la collaborazione, la coesione sociale. In una parola, un cammino che ci impegna a essere pellegrini e costruttori di fraternità. Pellegrini disposti a camminare con tutti, consapevoli di essere sulla stessa strada. E costruttori di fraternità, capaci di riconoscere la dignità dell’altro.

L’insegnamento della religione nella scuola deve essere pensato in questa direzione. Un luogo dove le religioni sono riconosciute, dove il fenomeno religioso non viene taciuto, ma conosciuto e accolto come fattore capace di generare umanità e di costruire legami fraterni. Nello stesso tempo un luogo non delegato a ‘qualcuno’, ma assunto dallo stato e dalle religioni, senza concorrenza e senza paura di invasioni di campo, nel rispetto delle tradizioni. Un vero insegnamento per la costruzione del cittadino di domani, credente e non credente. Un luogo di educazione al dialogo e alla fraternità. Un luogo per educare il cittadino a vivere nella società plurale e post-secolare, in un continuo allenamento a non escludere l’altro e neppure l’Altro.

Mi immagino le reazioni del mondo laico e del mondo cattolico. Per molti laici tale proposta può apparire uniinvasione di campo. E per molti cattolici può sembrare un cedimento, una manifestazione di debolezza, una pericolosa apertura al relativismo.

Ai laici rispondo rimandando alle riflessioni di due laici. Il primo scrive:

É giusto insegnare ai nostri figli a pregare, se Dio è morto? [...] Pregare è un modo per custodire l’evocazione di un Altro che non si può ridurre alla supponenza del nostro sapere, è un modo per preservare il non tutto, per educare all’insufficienza, all'apertura al mistero, all'incontro con l’impossibile da dire [...]. Ho deciso, con il consenso di mia moglie, di insegnare ai miei figli che è ancora possibile pregare perché la preghiera preserva il luogo dell'Altro come irriducibile a quello dell'io. Per pregare - questo ho trasmesso ai miei figli - bisogna inginocchiarsi e ringraziare. Di fronte a chi? A quale Altro? Non so rispondere e non voglio rispondere a questa domanda. E i miei figli, d’altronde, non me la pongono. Quando me lo chiedono, pratichiamo insieme quello che resta della preghiera: preserviamo lo spazio del mistero,  dell'impossibile, del non tutto, del confronto con l’inassimilabilità dell’Altro10.

Immediatamente cogliamo un guadagno enorme dell’insegnamento della religione nella scuola. Esso aiuta i ragazzi a mantenersi aperti al Mistero, ad uscire dalla ipertrofia dell’io. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro11.

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7 T. Halik, Pomeriggio del cristianesimo, cit., pp. 253155.

8 Papa Francesco. Fratelli tutti, cap. VIII, nn. 271-286.

9 Ibi, n. 281.

 

Inoltre aiuta a creare spazi sacri:

[...occorre] creare spazi (sacri, (perché inviolabili da parte della pre-potenza umana), ma di una ‘sacralità laica' in quanto rivolta concretamente a tutte le persone e a tutti i soggetti. All'interno di un orizzonte si atto si dovrebbe verosimilmente pensare anche a uno ‘spazio’ in cui il sapere filosofico si congiunge allo spirito sapienziale integrando nelle proprie espressioni elementi religiosi, artistici, rituali ecc.; definiti, però, naturalmente, dalla loro (completa) apertura e pluralità. Qui la politica ‘spirituale’, o ‘sapienziale’ (così si potrebbe chiamare la nuova politica), potrebbe essere intesa, invece che come quella che conserva la funzione di potere ma escludendo l’impegno veritativo e religioso, come quella che conserva completamente tale impegno ma in una maniera che l’aiuta a liberare progressivamente la società rispetto a qualsiasi dinamica di potere e quindi rispetto alla pre-potenza in questo insita11.

 

Ai cattolici ricordo semplicemente questo incisivo passaggio:

Di fronte alla presenza delle religioni altre, il cristiano, mentre s’interroga sulla propria identità, percepisce che gli interrogativi che provengono dall'universo delle religioni interpellano la comprensione che il cristianesimo ha di se stesso”.

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10 M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011, pp. 11-12.

11 Francesco, Fratelli tutti, n. 273.

12 LV. Tarca, Al cento per cento laica e al cento per cento religiosa. La verità nella società plurale, in D. Olivero, Laicità e religioni. Educare al futuro, Effatà, Cantalupa (TO) 2024, p, 66.

13 C. Dotolo, Un cristianerimu possibile. Tra postmodernità e ricerca religiosa, Queriniana, Brescia 2017, p. 143.