"LA SPERANZA VIENE A NOI VESTITA DI STRACCI".
( Paul Ricoeur)
Il
salmo illustra la condizione precaria della vita dell'uomo esposta da
una parte alle sofferenze del quotidiano dall’altra ai
sconvolgimenti storici causati dalle lotte di potere. Il salmista
procede con un tono sapienziale, illuminato dalla consapevolezza
della brevità dei giorni dell'uomo. Questa consapevolezza è tanto
importante che egli la invoca per tutti gli uomini: “Insegnaci a
contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”.
La
composizione del salmo molto probabilmente è avvenuta nel tempo di
pace relativa quando Antioco V ridiede la libertà religiosa ad
Israele (163 a.C.).
Il salmista ha il vivo ricordo di arroganti superbi entrati nel tempio di Gerusalemme credendo di affermarsi su Dio: Tolomeo III e Tolomeo IV erano entrati nel tempio offrendo sacrifici ai loro dei (ca. 220-221 a.C.); Antioco IV Epifane lo saccheggiò e vi fece sacrifici a Giove (ca. 169-167 a.C).
Invece il salmista, consapevole della fragilità umana, si rivolge a Dio come rifugio di Israele. Rifugio certo, perché Dio non è una creazione dell'uomo, egli, infatti, da sempre esiste: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; "Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato".
La fragilità dispone il nostro cuore alla speranza. La speranza viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito di festa. Una speranza che viene da altrove, viene povera e bisognosa di noi. Non ha in noi la sua origine. Ma è messa nelle nostre mani: sta a noi aiutare la fragile speranza a diventare la protagonista festosa di questa nostra epoca.
L'abito
di stracci che la speranza indossa è evocato da molti altri simboli
della Bibbia. Ad esempio dal racconto della fuga, lunga e disperata,
del profeta Elia davanti ai sicari della regina Gezabele, nel
deserto. Stanchezza, paura, fame e sete, ed Elia, l'indomito, il
forte, si arrende: cade a terra, si trascina al povero riparo di un
ginepro e prega: "basta Signore, non ce la faccio più,
riprenditi questa vita, meglio la morte di questa fuga
disperata".
Sfinito, cade in un torpore, da cui una carezza
lo sveglia. È un angelo che gli dice: alzati, prendi! Che cosa gli
fa trovare l'angelo per affrontare deserto e sicari? Non un cavallo
bardato pronto a divorare ai galoppo la steppa di Moab, ma un pane
cotto tra due pietre roventi, e un orcio d'acqua. Quasi niente, quasi
un castigo per noi. Pane e acqua, scampoli, stracci, del vestito
della speranza.
Eppure
si tratta di risorse che hanno lo scopo non di mettersi al posto del
profeta, ma di risvegliare lui, il suo corpo, il suo cuore. Il
profeta camminerà con le sue gambe, non su mani d'angeli, per 40
giorni, fino all'Oreb: pane e acqua bastano a renderlo
protagonista.
Il miracolo è avanzare senza miracoli, con pane e
acqua. La speranza viene a noi come povertà, non come miracolo.
Viene con quella semplicità che hanno tutte le cose più essenziali,
l'aria, la luce, l'acqua, il respiro. Viene come germoglio, non come
albero alto. È la virtù bambina, la più piccola delle tre sorelle.
È in viaggio a piedi nudi come la luce dell'alba.
Noi domandiamo
segni straordinari a un Dio illusorio e non ci accorgiamo dei segni
poveri del Dio reale. L'umiltà della speranza: viene vestita di
stracci, come piccolo granello di senapa, viene sotto forma di un
incontro, di una telefonata, un amico, un sms quando pensavi di non
farcela più, una parola ascoltata alla radio, letta in un libro, una
luce interiore. Alle volte non fornisce neppure pane, ma solo un
pizzico di lievito.