Colombia: represse nel sangue le proteste contro la riforma fiscale
di Samuel Bregolin  7 Maggio 2021
 Osservatorio dei Diritti
Dal
 28 aprile scorso, giorno in cui sono iniziate le proteste contro la 
nuova proposta di riforma fiscale, la situazione in Colombia è andata 
fuori controllo. Sono centinaia le denunce di violazioni dei diritti 
umani commesse delle forze dell’ordine, decine le uccisioni a sangue 
freddo già confermate.
Davanti a varie 
ambasciate europee in questi giorni si stanno riunendo i colombiani 
residenti all’estero, chiedendo di mettere fine ai massacri, mentre 
sulle reti sociali circolano decine di video sanguinari con esecuzioni 
sommarie per strada, dove si nota l’uso di armi da fuoco contro la 
popolazione da parte di agenti della polizia colombiana.
I
 numeri raccolti tra il 28 aprile e il 5 maggio dalla ong Temblores, 
specializzata nel registro della brutalità poliziesca, parlano di 1.708 
casi di violenza poliziesca, di cui 871 arresti non giustificati, 312 
interventi violenti e 110 interventi con uso di armi da fuoco. A causa 
di queste violenze 32 persone hanno perso la vita, 22 hanno perso un 
occhio e 10 donne hanno subito uno stupro.
Nella
 denuncia contro l’uso indiscriminato della forza da parte della forze 
di polizia colombiana si sono unite all’unisono praticamente tutte le 
organizzazioni internazionali e le ong presenti nel paese, Amnesty 
international, la commissione Onu per i diritti umani e Human Rights 
Watch.
A sorpresa, si è espresso anche 
il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, da sempre un fedele alleato 
dei governi e dei presidenti che nel tempo si sono succeduti nella Casa 
de Nariño, che ha espresso le proprie condoglianze per le famiglie delle
 persone decedute e ha sottolineato come in qualsiasi paese democratico 
sia inalienabile il diritto di manifestare e protestare pacificamente.
L’evento
 che ha scoperchiato il vaso di pandora colombiano è stata la proposta 
di legge per una nuova riforma fiscale. Il paese ha subito dei duri 
colpi economici a causa della pandemia, molte piccole e medie aziende 
hanno dovuto chiudere i battenti nel corso del 2020, in molti quartieri 
poveri delle principali città le famiglie si sono ritrovate senza 
alimenti.
In questo contesto, la riforma
 fiscale proposta dal presidente Ivan Duque cerca di raccogliere circa 
6.850 milioni di dollari aumentando il prezzo dell’elettricità e dei 
servizi di base e aumentando l’Iva su prodotti e beni di prima 
necessità, come farina, uova e zucchero, in un paese in cui lo stipendio
 minimo è di circa 234 dollari mensili.
Il
 governo di Duque naviga in cattive acque già dal 2019, quando scoppiò 
uno sciopero nazionale che durò per varie settimane, causando centinaia 
di feriti e la morte del giovane Dilan Cruz, come documentò Osservatorio
 Diritti.
Da allora, nonostante lo stop 
dovuto alla pandemia per il coronavirus, sembra che l’insoddisfazione 
popolare non abbia fatto altro che crescere. Sotto accusa non è 
solamente la recente riforma fiscale, ma anche e soprattutto l’abbandono
 dell’implementazione degli Accordi di pace, le nuove rivelazioni sui 
falsos positivos – ossia le vittime di esecuzioni extragiudiziali 
perpetrate dalla forze armate durante la presidenza Uribe (leggi 
Colombia: presidenza Uribe, uccise oltre mille persone l’anno dai 
militari) – fatte dalla Jep, il tribunale transizionale per la pace, e 
l’aumento della persecuzione contro i leader sociali e i difensori dei 
diritti umani.
Non per ultimo, il 
recente annuncio dell’acquisto di 24 aerei da guerra dalla nordamericana
 Lockheed Martin per una spesa di circa 14 miliardi di dollari, ha 
suscitato non poche polemiche.
Sono 
soprattutto i molti video condivisi sui social network che permettono di
 conoscere le violenze che stanno avvenendo in questi giorni in zone 
rurali del paese e nei quartieri popolari delle grandi città. Sono 
decine i filmati in cui si distinguono chiaramente le forze di polizia 
colombiane intervenire con armi da fuoco contro la popolazione locale.
In
 alcuni video esaminati da Amnesty international, l’organizzazione ha 
potuto confermare l’uso indiscriminato della forza e delle armi al di 
fuori dei protocolli.
«È preoccupante 
vedere le forze dell’ordine esercitare il controllo con delle armi da 
fuoco in mano. Lo scontento delle persone a causa della crisi economica è
 chiaro, ma è ingiusto che mettano a repentaglio i loro diritti umani 
per dimostrarlo», ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttrice per le 
americhe di Amnesty International.
Cosa succede a Cali, epicentro delle proteste
Nella
 notte tra il 2 e il 3 maggio la città di Cali è diventata l’epicentro 
delle proteste e della repressione, in una notte di terrore che ha 
causato la morte di almeno 21 persone e in cui si è sfiorato 
l’intervento dell’esercito colombiano.
Secondo
 quanto dichiarato dai vari leader sociali e difensori dei diritti umani
 di Cali, l’Esmad, gli squadroni mobili antisommossa, l’unità speciale 
della polizia colombiana per il controllo dei disturbi sociali, è 
intervenuta alle 20.30 nel corso di una manifestazione pacifica nella 
quale erano presenti famiglie, anziani e bambini. I video condivisi sui 
social network mostrano scene da conflitto armato.
«Ci
 hanno cacciato a pedate, ci hanno aggredito con molta superbia e 
violenza. L’ordine che abbiamo ricevuto dalle forze dell’ordine è quello
 di non avvicinarci, ma come possiamo documentare le violazioni ai 
diritti umani se non siamo presenti durante i fatti?», dice Ivan Ospina,
 avvocato difensore dei diritti umani dell’associazione Soñadores Siloé. 
 «Abbiamo bisogno di una campagna di comunicazione internazionale per 
difenderci dalla guerra interna che lo stato colombiano sta facendo 
contro i suoi cittadini. Abbiamo visto persone in borghese scendere da 
anonimi camion e sparare contro la popolazione, adesso inizieranno anche
 a far scomparire i video condivisi sui social network per eliminare 
ogni prova».