lunedì 7 giugno 2021

La spinta del Quirinale


Si è preso il suo tempo, Sergio Mattarella, per rispondere a chi lo ha incalzato per settimane sull'ultimo scandalo delle toghe, nato dal caso Amara e dal conflitto fra Procure, con l'ombra di una loggia massonica segreta dietro le quinte. L'ha fatto ieri, quando lo scontro (politico e mediatico) ha smesso di fermentare e quando ha potuto associare un ragionamento severo a due figure di magistrati esemplari per «responsabilità del ruolo e dignità della funzione»: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uomini-simbolo da onorare, certo. Ma soprattutto da imitare in quanto sapevano non soltanto essere, ma anche apparire, imparziali, secondo la vecchia esortazione di Sandro Pertini.

È in nome del loro impegno, del loro «valore» e della loro «altissima moralità», che il presidente della Repubblica evoca il clima di adesso, dentro i palazzi di giustizia. Un clima, smascherato ormai in via documentale, che sta progressivamente intossicando la fiducia del Paese con un triste spettacolo di «sentimenti di contrapposizione, contese, divisioni, polemiche all'interno della magistratura, che minano il prestigio e l'autorevolezza dell'ordine giudiziario».

Il risultato, per i cittadini ma soprattutto per Mattarella, che a norma di Costituzione è la prima toga d'Italia in quanto sta al vertice del Csm, è un crollo di credibilità del sistema. Infatti, avverte il presidente, «anche il solo dubbio che la giustizia possa non essere, sempre, esercitata esclusivamente in base alla legge provoca turbamento».

Insomma: siamo ancora fermi al «dilagante malcostume» e alla «modestia etica» di troppi magistrati che il capo dello Stato denunciò l'anno scorso, quando esplose l'affaire Palamara e, con esso, lo squallido mercato delle carriere. Un verminaio che non si riesce a bonificare. Sembra dimostrarlo, tra l'altro, anche la vicenda del giudice pugliese da poco arrestato per traffico d'armi, rapporti con i clan e scarcerazioni in cambio di danaro: una storia che ha colpito molto Mattarella. Il quale, non fortuitamente, avverte che «se la magistratura perdesse credibilità agli occhi della pubblica opinione, s'indebolirebbe anche la lotta al crimine e alle mafie».

Ecco dove si apre il punto più politico della sua riflessione. Bisogna cambiare molte cose. Lo chiedono tutti, lui per primo, oltre alle stesse toghe che hanno smascherato i recenti scandali. Per farlo, ricorda ora sulla scia di quel che raccomandò un anno fa, «gli strumenti a disposizione non mancano... Si prosegua, rapidamente e rigorosamente, a far luce su dubbi, ombre, sospetti, responsabilità» di ciò che è affiorato in questa torrida primavera. Questa la precondizione per fare pulizia nel presente. Siccome però non basterà, incalza Mattarella, «si affrontino sollecitamente e in maniera incisiva i progetti di riforma nelle sedi cui questo compito è affidato dalla Costituzione», ossia in Parlamento.

E qui occorre far attenzione alle parole, che il presidente del resto pesa con cura. Quando dice che la riforma della giustizia va messa in cantiere «sollecitamente», non allude a un indistinto futuro prossimo (cioè entro un anno o due), come per forza toccherà alle altre riforme richieste dall'Europa al governo Draghi per concedere il Recovery fund. Intende subito. Con il sottinteso che gli stessi magistrati, su questo fronte, devono mostrare responsabilità. Ad esempio per quanto loro compete nella gestione del Csm, che da diverse parti si pretenderebbe fosse sciolto da Mattarella. Non lo può fare. E non lo farà perché non ne ricorrono le condizioni (un blocco di funzionalità) imposte dalla legge istitutiva del Consiglio stesso.

Marzio Breda


Corriere della sera, 24 maggio