Quando il lavoro non dà più dignità
Chiara Saraceno La Stampa 3/6
Nella
Repubblica fondata sul lavoro non esiste solo una grande questione
salariale che rischia di diventare esplosiva con tassi di inflazione che
si mangiano fette sempre più ampie di salari già troppo modesti.
C'è
anche la questione che per troppe persone, specie se giovani di ambo i
sessi o donne di ogni età, il lavoro non è fonte, per quanto non
esclusiva, di identità, una modalità positiva di collocazione di sé nel
mondo e nelle relazioni sociali, di riconoscimento del proprio valore.
Al contrario è fonte di squalificazione sociale a motivo delle
condizioni di lavoro, della precarietà e dei bassi salari. È una
condizione che riguarda lavoratori a bassa qualifica, ma anche
lavoratori ad elevata specialità. Riguarda i rider alla mercè degli
algoritmi delle piattaforme, i camerieri stagionali e non, molti
occupati nel settore della logistica, specie se lavorano per una ditta
collocata nell'ultimo anello della catena dei subappalti, o i muratori
in condizioni analoghe, le commesse dei supermercati costrette ad un
part time involontario. Ma riguarda anche le infermiere o le assistenti
sociali assunte con contratti temporanei e orari di lavoro pesantissimi,
molti lavoratori e lavoratrici che lavorano dietro le quinte nel
settore della comunicazione e dello spettacolo o della moda o delle
belle arti – tutti settori in cui i contratti di lavoro sono spesso
temporanei, o non ci sono affatto, sotto la finzione della prestazione
occasionale o della libera professione e le remunerazioni spesso basse,
quando non bassissime, comunque non in relazione né alla qualità della
prestazione né al tempo di lavoro richiesto. Riguarda anche molti
giornalisti, se non fanno parte delle generazioni più vecchie.
La
precarietà sembra diventata la condizione di lavoro più diffusa per chi
è entrato negli ultimi anni nel mercato del lavoro. Anche gli ultimi
dati sul mercato del lavoro segnalano come la grande maggioranza dei
nuovi contratti di lavoro riguarda posizioni a tempo, spesso brevissimo.
La temporaneità, per altro, non caratterizza sono il periodo di
ingresso, ma si cronicizza nel tempo, diventando una condizione
semi-permanente, per altro anche poco protetta dagli ammortizzatori
sociali esistenti, come è emerso in modo chiaro durante la pandemia,
quando si è dovuto in qualche modo provvedere a fornire un qualche aiuto
a categorie di lavoratori e lavoratrici altrimenti prive di ogni rete
di protezione. Precarietà e squalificazione sociale riducono l'orizzonte
rispetto al quale progettare la propria vita, perciò anche la libertà.
Non ci può essere né sviluppo né coesione sociale se non si riconosce
dignità a chi lavora, tramite rapporti di lavoro non sfruttatori o
ricattatori e con compensi adeguati. Considerare i lavoratori, specie se
giovani o donne, come "usa e getta", non degni né di riconoscimento né
di investimento, non solo è ingiusto di un paese che si vuole
democratico e civile. E' anche suicida nel medio-lungo periodo, per le
imprese che operano in questo modo e per la società tutta.
La politica
dei bassi salari e della precarietà ad oltranza non sembra sia servita a
rendere più competitive le aziende che la perseguono, al contrario. Il
declino demografico e l'emorragia di giovani qualificati che cercano
riconoscimento all'estero sono la spia di una perdita di fiducia nelle
possibilità offerte in questo paese a chi vorrebbe investire nel futuro
e/o provare le proprie capacità.