giovedì 12 luglio 2007

E' TEMPO DI RESTARE

Dedico queste pagine a quei confratelli che sono scandalizzati da una chiesa gerarchica chiusa nella sua torre perché possano trovare nuove vie per il loro ministero.


(Da: Perché resto? elementi per una proposta di ecclesiogenesi, Quaderno di Viottoli n°6, 2003, pag. 44-54)


Più volte in questi anni mi sono sentito rivolgere questa domanda: “Se non sei d’accordo con le regole e i dogmi della chiesa perché ti ostini a rimanere dentro?”. Talvolta questo interlocutore aggiunge: “O si sta dentro oppure ci si mette fuori. Nessuno ti costringe a rimanere nella chiesa. Vattene… senza polemiche o discussioni”.


Sembra una riflessione logica, coerente, persuasiva. Anche se talvolta questa riflessione fiorisce su labbra laiche, è quanto di più clericale si possa pensare e, di fatto, è il ritornello che mi ripetono vescovi e cardinali da quasi quarant’anni. Sia la domanda che la riflessione sottostante mi sollecitano ad una risposta.

Solitamente questa riflessione manifesta la scarsa capacità di distinguere tra chiesa e gerarchia. Il che davvero non è una sfumatura irrilevante. Ma, per quanto lo si ribadisca, il linguaggio giornalistico corrente ignora questa rilevantissima differenza. Ci può essere una chiesa senza gerarchia; anzi, la chiesa di Gesù dovrebbe escludere ogni gerarchia. In ogni caso la gerarchia, che non ha alcun fondamento nella Scrittura, è il frutto di una degenerazione storica. Al più, visto che non possiamo mettere tra parentesi secoli di potere gerarchico, la gerarchia è quella casta sacerdotale maschilista e patriarcale che pretende di rappresentare ufficialmente la chiesa cattolica.

Ma è tempo di ricordare quanto scrive il teologo cattolico Xabier Pikaza: “chi si dice suddito sottomesso agli ordini di una gerarchia, non ha capito il Vangelo” (1). E ancora: “La dittatura sacrale si fonda sulla superiorità gerarchica di alcuni, che si impadroniscono di un potere o sapere e in tal modo manipolano gli altri (affermando talvolta che lo fanno per il loro bene)”, “come se la grazia di Dio dovesse passare attraverso alcuni filtri del potere sacro” (2).

Quindi, quando si parla di chiesa, occorrerà verificare se si parla delle donne e degli uomini che tentano di seguire il sentiero di Gesù o di un apparato burocratico. Chi esce dall’obbedienza alla gerarchia non esce dalla chiesa. Spesso, anzi, proprio per essere chiesa può essere necessario disobbedire al potere sacrale, consapevoli che un'autorità senza fondamento e autorevolezza evangelica è pura burocrazia.

In questa prospettiva nessuno ha il potere di definire a priori chi è dentro e chi è fuori della chiesa, come ho documentato ampiamente in altri scritti (3).

Ma resto in questa chiesa anche perché, con uno sterminato numero di credenti, di teologi, di preti penso sia importante cambiare le regole del gioco, lavorare a questo cambiamento nella direzione del superamento della struttura gerarchica, piramidale, sacrale, maschilista. Non per sognare una chiesa senza istituzione, ma perché l’istituzione abbandoni la dittatura gerarchica e si orienti verso una struttura ministeriale aperta alla pluratità e alla mutevoleza delle voci e delle forme. Sono troppo consapevole della necessità del ministero e dei ministeri nella comunità cristiana per coltivare una visione spontaneista o anarchica, ma oggi uno dei problemi centrali di questa chiesa è ristabilire una vera comunione di fratelli e sorelle che non siano più “diretti” da un potere usurpatore vestito di panni divini.

Ritengo importante che chi oggi vive serenamente una nuova consapevolezza della comunione ecclesiale continui il suo impegno perché questa consapevolezza si traduca e si espanda a livello di elaborazioni teologiche e di pratiche pastorali. “E’ finito un ciclo storico: siamo dinnanzi all’ultima generazione di ministri (vescovi e presbiteri) clericali o sacerdotali della chiesa.

Arriverà una generazione nuova di cristiani, liberi per un tipo di ministero laicale, non gerarchico, a partire dalle stesse comunità, senza condizioni di celibato, senza discriminazione di sesso, una generazione di servi del Vangelo che non siano sacerdoti, né abbiano un potere sacro, né possano trasformarsi in un gruppo o casta al di sopra dei fedeli.

Non m’attendo che i cambiamenti vengano dalla “cupola” clericale, ma dalla radice del Vangelo, a partire dal ricordo di Gesù e delle prime comunità cristiane, secondo la fede del popolo. Sono molti i buoni cristiani che non si sentono ben rappresentati né diretti dal tipo attuale di gerarchia; non possono essere accusati di essere ribelli, né essere chiamati anticristiani o protestanti, perché la ribellione protestante deve essere integrata nella chiesa cattolica, affinchè abbia frutto.

Eccesso di istituzione, desiderio di controllo. Dobbiamo tornare all’inizio del Vangelo, radicarsi nella fraternità di Gesù, al servizio degli esseri umani. Si è detto e si dice che ciò è impossibile, che la chiesa (come tutte le istituzioni sociali di prestigio) si mantiene grazie alle sue gerarchie di potere… Ebbene, contrariamente a ciò, se Gesù fu davvero il messia di Dio e Dio era colui che Gesù annunciava, la chiesa deve mostrare che essa è diversa, che può costituirsi nella modalità della comunione personale, senza le strutture del sistema” (4).

Temo che il teologo ora citato sia troppo ottimista, ma questa mi sembra la direzione evangelica verso la quale occorre camminare. In questa “casa” c’è troppo lavoro da fare per imparare insieme che l’obbedienza non è più una virtù e per crescere nella responsabilità dei liberi figli/e di Dio. La fraternità e la sororità reali non possono coesistere con un “impianto gerarchico” che crea dipendenza, marginalità, passività. Questo è “tempo di restare” anche perché sento che proprio l’impegno teologico e le nuove pratiche pastorali possono in qualche modo rappresentare un sentiero di radicale rinnovamento comunitario.

Emerge con chiarezza un dato di tutta evidenza. Nessuno ti tocca, ti ammonisce o ti emargina nella chiesa se ti occupi di tossicodipendenti, di mafia, di fame, di malati di Aids, di baraccopoli, del “terzo mondo”, di lotta nonviolenta: tutte scelte umanamente ed evangelicamente preziose. Anzi, diventi una persona esposta al rischio di diventare un personaggio. Lo puoi fare a Milano, a Torino o a Calcutta, a Korococho o a Pinerolo. Qualcuno forse ti richiama alla prudenza, ma spesso si tratta di spazi anche “finanziati” o benedetti o tollerati dalle istituzioni ufficiali.
La gerarchia “scatta” su altri terreni di impegno: quando, con un lavoro sistematico di rinnovamento della teologia e delle prassi pastorali, si va a toccare la sacralità del suo potere, quando la si sveste dei panni divini, quando si emancipano le coscienze dalla dipendenza dalle leggi ecclesiastiche, quando si evidenzia la storicità di certi enunciati dogmatici o se ne fornisce una diversa interpretazione, quando si trasgrediscono le regole ecclesiastiche che escludono i divorziati o i gay e le lesbiche dalle nozze cristiane.

La gerarchia scatta e bacchetta quando si compie un cammino comunitario in cui, con gioia e serenità, con un pizzico d’ironia, si va oltre certi diktat senza nemmeno dover chiedere il permesso ad ogni passo, con una visione della chiesa in cui la comunione sia confronto, correzione reciproca e non sudditanza o dipendenza.

La gerarchia accetta volentieri tutto ciò che, in un contesto di scarsa credibilità della chiesa, presenta volti ed esperienze di alto livello morale che le fanno fare una “bella figura”. Non gradisce invece tutto ciò che non porta acqua, credibilità e consenso all’istituzione ecclesiastica ufficiale.

Sottolineo con vigore questo fatto: nella chiesa puoi fare di tutto o quasi con la benedizione dei “sacri pastori” purchè non tocchi la sacralità del loro potere e delle loro ideologie dogmatiche. Eppure è lì che bisogna lavorare pazientemente per smascherare non delle persone (verso le quali non nutro alcuna avversione) ma delle strutture e delle ideologie di dominio. Ma resto e resto anche come prete, non perché un giorno un vescovo mi impose le mani facendomi “sacerdote in eterno”. Questa è la dottrina ufficiale cattolica secondo la quale il popolo di Dio sarebbe diviso in clero e laicato dando legittimità ad una chiesa cone “società ineguale”. Sono mille miglia lontano da questa concezione che “sacerdotalizza” il ministero.

Conosco però e rispetto i lunghi percorsi e i tempi che sono necessari perché molta parte della comunità sappia “desacerdotalizzare” il ministero. A volte nell’azione pastorale sono necessarie, a mio avviso, mediazioni che rispettino le persone presso le quali esercitiamo il ministero. L’importante resta l’orizzonte verso il quale ci muoviamo nella lucida consapevolezza di spogliare progressivamente il ministero di ogni prerogativa “sacerdotale” (5).

Ma io resto nella chiesa cattolica e ci resto come presbitero perché me lo chiede un gran numero di donne e di uomini che mi riconoscono un ministero e mi invitano pressantemente a continuare. Il loro affetto, la loro testimonianza e il loro riconoscimento, accanto a quello della mia comunità cristiana di base, rendono evangelicamente ed ecclesialmente “legittimo” il mio ministero. Questo è il “rinoscimento” senza il quale non potrei proseguire l’esercizio di un ministero – servizio dentro la comunità ecclesiale. Quello giuridico, burocratico della gerarchia è del tutto inessenziale e irrilevante.

Resto come presbitero in questa chiesa perché a tutt’oggi 3900 preti mi hanno manifestato la loro solidarietà e mi sollecitano a non mollare.

Resto perché migliaia e migliaia di “cristiani/e irregolari” (spretati, separati, divorziati, preti innamorati, gay, lesbiche, transessuali, eretici, dissenzienti, teologi, femministe …) sono i miei più cari compagni di viaggio, di ricerca. Con loro ho scoperto quanto i territori della fede fioriscono oltre il tempio. Queste donne e questi uomini sono stati e sono tuttora lo spazio aperto in cui sento giorno dopo giorno nascere a piccoli passi una chiesa altra. Non posso tradire questa bella “carovana” di cui, irrregolare tra irregolari, mi sento gioiosamente parte. E’ questa, insieme alla mia comunità cristiana di base, la compagnia in cui mi sento immerso e sorretto nel cammino di conversione personale e di impegno nel mondo.

E poi io resto in questa chiesa che vivo come una realtà ecumenica perché in essa ho ricevuto il dono della fede, il primo contatto con le Scritture, il ministero. Non ho mai cessato di amare questa chiesa anche se, rispetto agli apparati burocratici, abito in un altro pianeta. E poi, perché lasciare tutto lo spazio agli “obbedienti”?

La mia speranza è che finalmente la chiesa di base si ponga seriamente il problema del ministero e dei ministeri calamitando tutti quei sacerdoti che sono disposti a convertirsi ad un ministero desacralizzato e, soprattutto, eleggendo al proprio interno i ministri di cui Dio le fa dono e di cui c’è estrema necessità.

“Non c’è chiesa visibile senza ministeri, né fraternità e sororità senza istituzione che “organizzi” l’amore a partire dal Vangelo… I ministeri sono fondamentali come mediatori della Parola e dell’amore comunitario” (X. Pikaza). Ma è chiaro che il modo con cui si concepiscono i ministeri determina in larga misura la vita delle comunità.

Lo stesso teologo così prosegue: “Dio è trascendente e agisce in modi diversi, che soltanto nella fede si possono comprendere e accettare; ma lo fa sempre attraverso l’amore e il dialogo comunitario. La nomina normale dei ministri (vescovi, presbiteri) è perciò compito e gioia della comunità dei credenti: essi sono portatori della parola e dell’amore di Cristo e così devono esprimerlo, scegliendo i propri ministri, alla luce dei bisogni dei poveri e degli esclusi, secondo la parola del concilio di Gerusalemme: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi” (At. 15, 28). Lo Spirito Santo agisce attraverso il dialogo comunitario, non grazie all’ispirazione di alcuni membri particolari della chiesa. Certo, i ministeri scaturiscono da una chiamata speciale di Dio (sono al servizio della sua Parola) e si diffondono in modo missionario (per testimoniare Cristo tra gli esclusi); nel contempo però devono scaturire dal dialogo fraterno dei fedeli, così che ogni comunità deve scegliersi i propri ministri (…). I ministri della chiesa esprimono la grazia e la libertà di Cristo che trascende l’ordine del sistema; non possono diventare i funzionari o gli impiegati di un’istituzione. Essi devono animare la vita di alcune comunità concrete di credenti che condividono la parola e l’amore (eucarestia), in un dialogo trasparente, dove tutti i problemi si esprimono e risolvono parlando, perché non c’è un’istanza maggiore dell’amore reciproco. Al tempo stesso però sono testimoni di un Gesù che ha proclamato il Vangelo ai poveri (cfr. Lc 4, 18–19), così che il loro primo compito consiste nell’accogliere gli esclusi e gli umiliati, i dissidenti, i diversi e gli oppressi della terra. Certo, essi ascoltano e proclamano una parola di Gesù: non sono portatori dei risultati di un’assemblea, né semplici portavoce di un gruppo, ma credenti che esprimono e diffondono quello che hanno creduto. Al tempo stesso però ricevono l’incarico dalla comunità dei credenti che affida loro il compito dell’animazione comunitaria; nella loro vita perciò esprimono la vita e la comunione dei credenti della loro chiesa. Questi aspetti si trovano collegati: i ministri della chiesa sono testimoni di Gesù e sono portatori dell’amore comunitario. Su entrambi i piani essi sono coloro che trasmettono un amore diretto, una comunione nella quale hanno importanza soltanto le persone, prescindento dalle pressioni ideologiche o generali del sistema (…). In base a ciò la chiesa è comunità, non sistema: comunione personale, su un piano di preghiera e pasto, dialogo e ricerca umana; esiste unicamente sul livello dei rapporti personali, della conoscenza, della comunicazione e dell’amore concreto. Nessuno è credente per lettera o acquistando una tessera, via internet o per delega, ma in seguito ad una esperienza di fede nel Dio di Cristo e grazie alla comunione di amore con altri credenti, che coltivano questa fede nel dialogo reciproco. Conseguentemente una chiesa in cui i vescovi e/o presbiteri sono nominati dal di fuori non sarebbe una comunione di credenti responsabili, incontro di persone, ma delega sacra di una dittatura…” (6).

Passando poi al tema specifico della presidenza eucaristica il teologo spagnolo prosegue così: “E’ evidente che, in conformità con la mia versione del Nuovo Testamento, la presidenza eucaristica possa e debba scaturire dalla stessa comunità dei cristiani, in modo tale che siano loro a scegliere per un certo periodo i propri “presidenti”, siano essi uomini o donne. La prassi attuale di ordinare prima i presbiteri “in generale” (come ordine speciale, sacro) per assegnargli poi una comunità mi sembra contraria alla vita originaria della chiesa e all’ispirazione del Vangelo. Non credo nelle “ordinazioni assolute”, in modo che non si possa dire “questo è un vescovo, questo è un presbitero”, così in generale, se non si dice “questo è il vescovo o il presbitero di questa chiesa”. Evidentemente sono le comunità quelle che devono nominare i propri ministri, per loro conto e per tutto il tempo che reputano conveniente. Credo che tale prassi possa iniziare da subito. Penso che alcune comunità cristiane siano in un buon momento per iniziare a celebrare e a vivere l’eucarestia come qualcosa che fa parte della loro esperienza e ricchezza cristiana, creandosi da sé i propri ministeri” (Adista, 29 marzo 2003).

Insomma occorrre promuovere tutta la chiesa alla dignità laicale dei figli e delle figlie di Dio strappandola all’involuzione e al degrado clericale. Bisogna sempre rifarci al Gesù storico. Nella nostra storia abbiamo trovato due scappatoie per nullificare la laicità di Gesù. Lo abbiamo “sacralizzato” fino a farne un Dio o lo abbiamo sacerdotalizzato.

Ma egli, tutto “incentrato sul regno di Dio, lo è anche su Dio stesso … Il “regnocentrismo” e il “teocentrismo” coincidono. Gesù non ha parlato primariamente di se stesso, ma è venuto per annunciare Dio e la venuta del Suo regno e per mettersi al Suo servizio. Dio è al centro, non il messaggero" (7). Anzi “il nazareno non ha mai proclamato di essere il messia e come Gesù giunse ad essere chiamato messia, resta uno dei più grandi enigmi delle origini cristiane” (8).

Anche se il processo di divinizzazione di Gesù compare molto presto nelle origini cristiane “la fede in Gesù dei primi cristiani non ha preso il posto della fede in Dio; essi non hanno per nulla abiurato il monoteismo ebraico, la confessione cioè dell’unico Dio esistente. Hanno esaltato oltre ogni dire Gesù, … ma non si sono mai spinti a fare di lui un secondo dio” (9).

Gesù “si distingueva per il suo ruolo di mediatore storico della definitiva regalità divina di Dio Padre e per uno specifico rapporto funzionale con lui. Comunque è certo che non ha mai detto di essere il figlio di Dio trascendente; è la chiesa delle origini che ha tematizzato e sviluppato tale titolo glorioso fino ad arricchirlo di contenuti sorprendenti” (10).

Né ha mai fatto di sé un sacerdote. Questo profeta della Galilea che per noi cristiani è l’icona di Dio, la sua epifania nella nostra carne, tanto che lo chiamiamo “figlio di Dio” per designare la sua intimità con Dio e la missione particolare che il Signore gli ha affidato, ha chiaramente distinto tra apparato religioso e fede.

Quest’uomo, che ha fatto sua la causa di Dio con tutto il cuore, che ha cercato ogni giorno di convertirsi alla volontà del Padre, che ha pregato per non indietreggiare di fronte alle prove della vita, è stato un laico: “Gesù nacque come ebreo laico, condusse il suo ministero come ebreo laico e morì come ebreo laico... Egli era un laico religiosamente impegnato che sembrava minacciare il potere di un gruppo ristretto di sacerdoti. Questo contribuì allo scontro finale in Gerusalemme... Ho intenzionalmente sottolineato la condizione laicale di Gesù perché i cristiani sono molto assuefatti all’immagine di Gesù sacerdote o grande sommo sacerdote” (11). Sarebbe bene che non lo dimenticassimo mai.

Oggi più che mai penso che sia importante costruire ponti. Ed è la tradizione plurale, non quella resa uniforme e “venduta” al popolo di Dio come autentica solo se subordinata alla gerarchia, che ci autorizza ad una fedeltà che esige apertura all’innovazione e al cambiamento. Già oggi è possibile concepire la chiesa come una casa nella quale, senza escludere nessun confronto, possiamo scegliere e decidere senza chiedere permesso.

In questa chiesa, che così diventa uno dei laboratori della fraternità e della sororità, uno degli spazi dell’innovazione culturale e della profezia, possiamo esperimentare la sommessa presenza di Dio che ci accompagna verso le nostre responsabilità e verso la vita.

In questa direzione… fare il prete mi piace, mi affatica, mi colloca in mille incertezze, ma è una esperienza che ogni giorno ricevo con gratitudine dalle mani di Dio e ogni giorno imparo camminando con la mia comunità. Non difendo un posto di potere, ma resto in una posizione scomoda. Non sono un capo, ma cerco di utilizzare le esperienze spirituali e culturali, le conoscenze e la passione che sento dentro di me in una concreta pratica di servizio. Ma la mia posizione di prete irregolare mi rende ogni giorno più “comunicante” con quelle persone che, secondo i criteri delle gerarchie, “non sono in regola”. Tra i “maledetti” e le “maledette” trovo ogni giorno la mia benedizione e sento che, proprio nessuno/a escluso/a, tutti/e siamo accolti/e dall’amore accogliente di Dio, senza il quale siamo perduti.

Avrei potuto, dopo l’illegittimo e invalido licenziamento vaticano, decidere di fare il “libero battitore”, sciolto da un quotidiano, impegnativo servizio comunitario. Ma sono convinto che è proprio la “realtà comunitaria” il fatto più indigesto alla gerarchia. Soprattutto è nella dimensione comunitaria, nel fare comunità dal basso, che ritengo possa esprimersi uno dei volti più vivi dei cristianesimi di oggi. Su questo sentiero, percorso da mille difficoltà, voglio lavorare, pregare, progettare e sognare ancora.

Non ho la pretesa di indicare la strada a nessuno, ma mi sento la gioia e la libertà di vivere la fede e il ministero fuori dalle “regole burocratiche”. Anzi ho la speranza che questa libertà possa produrre straripamenti nella comunità ecclesiale e sono lieto quando vedo che molte persone imparano a viver la fede e il ministero anche senza la “benedizione” gerarchica.

Difendo il dirito di una comunità cristiana a darsi un prete, come direbbe Schillebeeckx, e in sostanza la responsabilità di una comunità di riconoscere i doni che Dio le dona e di strutturare il ministero secondo i bisogni, la creatività, la libertà evangelica. Anche questo è per me amore alla mia chiesa che ha perso, nelle sue istanze gerarchiche, il senso della provvisorietà.

“L’istituzione ecclesiale tende a occultare la propria precarietà con la grandezza del discorso dottrinale” (Christian Duquoc). Essa pretende di erigersi come vessillo sulle nazioni e non riesce a superare la tentazione di “unificare l’umanità sotto una sola verità e sotto un’unica pratica codificate, l’una e l’altra controllate da un unico potere” (12). Si difende appellandosi ad una interpretazione mummificata della tradizione, intesa come memoria normativa rigida: “Questa invece di permettere la nascita di una pratica che accetta le sfide di una situazione inedita, agendo in tal modo come un fattore di trasformazione possibile, blocca molto spesso le richieste del popolo riguardo all’organizzazione della loro chiesa, con il pretesto che le tracce lasciate dai loro predecessori hanno valore definitivo e non solo di incitamento. Il simbolo allora non scava più la distanza feconda tra ciò che avviene, il Regno di Dio, e la visibilità presente. L’intelligenza senza la flessibilità della tradizione pietrifica il movimento dinamico di conversione strutturale in una fissità organizzativa e amministrativa (…). Ma l’istituzione, a causa della logica che regge la sua organizzazione e la sua amministrazione, frena la dinamica del proprio compito volendo dominare il divenire umano in modo tale che ogni credente divenga il servitore dei suoi interessi immediati; l’istituzione persegue uno scopo collettivo che dimentica il soggetto individuale del Regno; essa si comporta praticamente come se abolisse in sé la distanza dalla realizzazione della Promessa.

L‘esergo che ho premesso alla mia conclusione allude a questa deviazione: il funzionario non vede le lacrime dei soggetti; non prova compassione, come il sacerdote e il levita della parabola del buon samaritano. Chiudendosi su se stessa e preoccupandosi dei propri interessi storici, l’istituzione si allontana dalla discrezione di Dio e si arroga un potere che mira a rendere Dio visibile nella sua organizzazione. La frase utilizzata al Vaticano II: “La chiesa è un vessillo innalzato sulle nazioni”, fa capire che la causa di Dio è immediatamente riconoscibile, come sono gli eserciti di uno stato. In realtà, questo significa dimenticare la precarietà della sua situazione per omissione dell’esperienza evangelica della discrezione divina” (13).

E’ nella precarietà e nella provvisorietà che riscopriamo il dono di Dio e impariamo ad ascoltarci come fratelli e sorelle mentre tendiamo umilmente l’orecchio e il cuore per percepire i segni di Dio in questo nostro tempo. Ma… bisogna scommettere su Dio e correre qualche rischio… uscendo da alcuni parametri.

Due avvenimenti di rilievo hanno segnato la vita della chiesa in questi ultimi mesi del 2003. Da una parte il sinodo delle donne di Barcellona, ricco di sobrietà, di voci plurali, di contenuti e di proposte profetiche. Dall’altra il concistoro del 22 ottobre con la nomina dall’alto di 31 nuovi cardinali, amici del papa o amici degli amici. Una cooptazione in cui la comunità è semplicemente assente e spettatrice.

Nel sinodo delle donne è stato centrale il confronto; nel “concistoro” si vedono solo l’enfasi sacrale, l’autocelebrazione della potenza sacerdotale e il delirio maschilista e patriarcale di una casta che va per la sua strada di potere e dà spettacolo per “merito” delle televisioni. Come le ballerine mostrano le loro grazie, così i gerarchi ostentano le loro porpore: ma sono spettacoli tra l’indecoroso e il blasfemo in una società affamata di giustizia in cui si consumano tragedie di povertà, di violenza, di fame.

La polvere imperiale dà spettacolo, “seduce”, ma risveglia in tanti cristiani/e il bisogno di cercare altrove, ripensando a quel Gesù di Nazareth che è venuto a servire e non per essere servito: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 10, 42-44). Le strutture della chiesa non possono che misurarsi con questa radicale proposta di Gesù.


NOTE
(1) XABIER PIKAZA, Sistema Libertà Chiesa, Borla, Roma 2002, pag. 67.
(2) IDEM, op. cit., pagg. 396, 479.
(3) Ne ho ampiamente parlato in alcuni miei libri scritti in questi ultimi anni: Il dono dello smarrimento, L’ultima ruota del carro, Prima di tutto amare, reperibili presso l’associazione Viottoli.
(4) XABIER PIKAZA, op. cit., pagg. 479.
(5) Riporto nel capitolo seguente uno studio, “ I diritti umani nel dibattito teologico”, che produssi 23 anni or sono e che ancor oggi sottoscrivo completamente. Ringrazio l’Editrice Claudiana che ne ha permesso la pubblicazione.
(6) XABIER PIKAZA, op. cit., pagg. 483-485 passim.
(7) JACQUES DUPUIS, 10 parole chiave su Gesù di Nazareth, Cittadella, pag. 387.
(8) GIUSEPPE BARBAGLIO, Gesù ebreo di Galilea, Dehoniane, pag. 604.
(9) IDEM, op. cit., pag. 618.
(10) IDEM, op. cit., pag. 605.
(11) J.P. MEIER, Un ebreo marginale, Queriniana, Brescia, volume I, pag. 345.
(12) CHRISTIAN DUQUOC, Credo la chiesa, Queriniana, Brescia 2001, pag. 25.
(13) IDEM, op. cit., pag. 319, 323.

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