Il mio breve scritto che segue è comparso nel libro “Cerchi di libertà”, edito a cura di Franco Carena.
Alla soglia dei miei settant’anni guardo il lungo tratto di vita trascorso e avverto tutta la fragilità che sempre mi ha accompagnato. Ancora mi riscaldo ai sogni e ai fuochi accesi nella mia giovinezza che si sono fatti più ricchi di significato nel trascorrere degli anni.
Per me non c’è mai stata una meta che abbia posto fine al mio pellegrinaggio. Di questa dimensione itinerante ed inquieta della mia esistenza ringrazio Dio ogni giorno.
Quando da giovane prete feci l’esperienza dello smarrimento e del dissolvimento delle più granitiche certezze dogmatiche, maturò in me la consapevolezza che la vita umana e l’esperienza cristiana non potevano realizzarsi che in un continuo, esodico spostare le tende.
Fu negli anni ’64 - ‘65, ancora prima dell’esplosione del ’68, che avvertii lucidamente che il mio ministero non poteva limitarsi alla diligente ripetizione di formule tanto “venerande per età” quanto insignificanti per il presente.
Immerso fino al collo nella vita dei giovani della mia città e negli studi, attento alle lotte contro lo strapotere della Democrazia Cristiana e del franchismo, mentre aprivo gli occhi “innocenti” su una chiesa gerarchica legata al carro dei potenti con immensa delusione, in quegli anni mi innamorai della Bibbia e della persona del Gesù storico.
Pensavo, illudendomi, che il Concilio Vaticano II avrebbe spazzato via ogni ambiguità e ogni alleanza con il potere politico.
Più volte portato in tribunale per le lotte operaie e per antimilitarismo, mi resi progressivamente conto che la libertà si nutre di liberazione personale e collettiva, ecclesiale e politica, senza fine, senza sosta, senza tregua.
Soprattutto uscii dall’idea che esistesse un percorso di liberazione a flusso continuo…, veloce, rettilineo. Negli anni “libertà” divenne anche sinonimo di un cammino di conversione personale per non erigere idoli nel proprio cuore.
La preghiera, il cammino comunitario con la chiesa di base e con i teologi e le teologhe della liberazione, la lettura biblica, la partecipazione alle lotte degli omosessuali e delle donne, l’impegno con i transessuali, l’incontro con la donna che amo, i conflitti e le tensioni con la gerarchia, la fatica per arrivare alla fine del mese senza debiti….sono diventati per me lo spazio di una umanità e di una fede sempre da ripensare e da ripiantare.
E ora vedo con gioia ciò che Dio mi ha donato, ma guardo anche con disincanto e con lucidità i momenti in cui non sono stato libero da me stesso, dalla paura, dall’egoismo, dalla mediocrità. Ma anche la consapevolezza dei miei limiti e dei miei errori, non si è mai tradotta in paralisi.
Più che mai oggi sento che la vita e la fede sono “appello alla libertà”, una chiamata a vivere ogni giorno fuori dagli schemi dell’idolatria del mercato, lottando contro l’egemonia patriarcale e gerarchica, per una società laica in cui ci sia rispetto per il diritto di ognuno/a e la negazione del privilegio.
Pacatamente continuo il mio impegno di uomo, di prete e di teologo, guardando oltre questa chiesa gerarchica che si nutre di arroganza, che pretende privilegi e ritiene di avere l’esclusiva.
Dentro questa lotta appassionata e costruttiva, sento che la parola libertà si fa cammino, pellegrinaggio dei piccoli passi, sogno non evasivo, gioia di vivere e possibilità di condividere. Libertà per me significa anche attendere l’alba come le sentinelle. Esse sanno che la notte, per quanto lunga, lascerà posto alla luce del giorno.
Eppure il panorama è fosco e il cammino che attende gli uomini e le donne che fanno parte dei mille cantieri della liberazione è ora più complesso. I mezzi di comunicazione in larga misura sono diventati strumenti del potere che cerca con ogni mezzo di creare evasione, distrazione, manipolazione.
Come la lucida analisi di Zigmunt Baumann da vent’anni evidenzia, la caduta delle “grandi narrazioni” politiche e religiose ha creato la “solitudine del cittadino globale” e una cultura dell’individualismo esasperato in una società ormai in balia di una crescente incertezza.
I poteri forti del mercato, dei media, della militarizzazione (le tre M che sono la trinità capitalistica) viaggiano d’amore e d’accordo, per creare consumatori e videodipendenti, nell’accettazione della cultura militarista per cui i conflitti si risolvono con le armi e le guerre.
Davanti all’ecocidio in atto, davanti al frantumarsi del mondo delle relazioni, spesso ridotte a pure e semplici connessioni, non c’è tempo da perdere. Per questo, a mio avviso, è sempre più urgente dare spazio a quel lavoro di creazione di coscienze critiche e partecipative di cui ha ampio bisogno il nostro oggi.
La lezione di don Milani non è tramontata. E nutro la tenue speranza che, anche nella chiesa cattolica, dopo questa stagione di chiusura e di aggressività, tornino a farsi sentire voci di libertà.
Ora la gerarchia cattolica si è messa alla testa della destra planetaria e, aldilà delle declamazioni di pura retorica pauperistica, è diventata uno dei collanti più efficaci di tutte le forze che, dietro l’etichetta dei valori tradizionali, si organizzano per mantenere lo status quo.
Ma Dio e la coscienza umana restano due realtà che nessuna catena può imprigionare e nessun potere può soffocare. Questo non è il tempo di appartarsi dalla speranza e dalla lotta, di rifugiarsi nella nostalgia o di ritornare all’orticello, di ripiegarsi nella delusione per poi buttarsi nelle varie sagre del barolo, del cioccolato, del peperoncino, del tartufo… o nei voli misticheggianti o nelle declamazioni utopistiche.
E’ tempo di restare nei quotidiani, piccoli e concreti cantieri della liberazione con una forte dimensione di coinvolgimento personale e una visione politica che coniughi realismo e apertura all’ulteriorità e all’alterità utopica.
Lancio, a conclusione di queste note, una iniziativa che intendo realizzare. Si tratta di dare vita ad un incontro che chiamerei “Prove di Concilio” in cui possano esprimersi coloro che non trovano più spazio nella chiesa istituzionale non solo per esporre dissenso e protesta, ma soprattutto per avanzare proposte costruttive.
Lo scopo è quello di far nascere e crescere l’idea e l’esigenza di un nuovo concilio. Credo, in verità, che sarebbero maturi i tempi per un Concilio di tutte le chiese cristiane. Tali sono le “sfide” che il mondo di oggi rivolge al cristianesimo che a me sembrano non procrastinabili una riflessione ed un’azione comune tra tutte le chiese cristiane.
In attesa che maturi questo “evento”, penso che una nuova coscienza ecclesiale esiga non solo un altro Concilio, ma soprattutto un Concilio “altro”. Voglio dire che ormai è teologicamente maturo il tempo per una rappresentanza diversa. Il solo episcopato non può rappresentare adeguatamente una chiesa.
Oggi le donne, i preti sposati, i gay e le lesbiche credenti, i divorziati che vivono le seconde nozze, i teologi e le teologhe, il movimento “Noi siamo chiesa”, le comunità cristiane di base, i/le cristiani/e attivi/e nel volontariato o nell’impegno culturale, amministrativo e politico, nei movimenti della pace, nel femminismo, nelle lotte contro l’ecocidio e il patriarcato rappresentano un patrimonio di riflessione e di azione la cui voce è indispensabile per ripensare il senso della presenza cristiana nel mondo.
Tutte queste “presenze” debbono avere voce attiva, deliberativa e non solo consultiva. Oggi, insomma, un Concilio comporterebbe a livello teologico una presa d’atto della necessità di superare il modello precedente. Con i “padri conciliari” dovrebbero sedere le madri, i fratelli e le sorelle “conciliari”.
Senza questa rappresentanza reale del popolo di Dio un concilio clericale e patriarcale partirebbe con il piede sbagliato. Un altro Concilio se non sarà un Concilio “altro” sarà privo di vera autorevolezza evangelica.
Spero che questo “oltrepassamento” avvenga perché, senza questa coralità, la nostra chiesa potrebbe correre il rischio di imprigionarsi in un ghetto o di diventare un museo. La mia fiducia sta nel fatto che il “vento soffia… inarrestabile, irresistibile…”.
Facciamo nascere in ogni chiesa locale qualche “prova di concilio” perché il Vangelo chiama alla libertà e alla responsabilità, fuori dai silenzi complici.
Alla soglia dei miei settant’anni guardo il lungo tratto di vita trascorso e avverto tutta la fragilità che sempre mi ha accompagnato. Ancora mi riscaldo ai sogni e ai fuochi accesi nella mia giovinezza che si sono fatti più ricchi di significato nel trascorrere degli anni.
Per me non c’è mai stata una meta che abbia posto fine al mio pellegrinaggio. Di questa dimensione itinerante ed inquieta della mia esistenza ringrazio Dio ogni giorno.
Quando da giovane prete feci l’esperienza dello smarrimento e del dissolvimento delle più granitiche certezze dogmatiche, maturò in me la consapevolezza che la vita umana e l’esperienza cristiana non potevano realizzarsi che in un continuo, esodico spostare le tende.
Fu negli anni ’64 - ‘65, ancora prima dell’esplosione del ’68, che avvertii lucidamente che il mio ministero non poteva limitarsi alla diligente ripetizione di formule tanto “venerande per età” quanto insignificanti per il presente.
Immerso fino al collo nella vita dei giovani della mia città e negli studi, attento alle lotte contro lo strapotere della Democrazia Cristiana e del franchismo, mentre aprivo gli occhi “innocenti” su una chiesa gerarchica legata al carro dei potenti con immensa delusione, in quegli anni mi innamorai della Bibbia e della persona del Gesù storico.
Pensavo, illudendomi, che il Concilio Vaticano II avrebbe spazzato via ogni ambiguità e ogni alleanza con il potere politico.
Più volte portato in tribunale per le lotte operaie e per antimilitarismo, mi resi progressivamente conto che la libertà si nutre di liberazione personale e collettiva, ecclesiale e politica, senza fine, senza sosta, senza tregua.
Soprattutto uscii dall’idea che esistesse un percorso di liberazione a flusso continuo…, veloce, rettilineo. Negli anni “libertà” divenne anche sinonimo di un cammino di conversione personale per non erigere idoli nel proprio cuore.
La preghiera, il cammino comunitario con la chiesa di base e con i teologi e le teologhe della liberazione, la lettura biblica, la partecipazione alle lotte degli omosessuali e delle donne, l’impegno con i transessuali, l’incontro con la donna che amo, i conflitti e le tensioni con la gerarchia, la fatica per arrivare alla fine del mese senza debiti….sono diventati per me lo spazio di una umanità e di una fede sempre da ripensare e da ripiantare.
E ora vedo con gioia ciò che Dio mi ha donato, ma guardo anche con disincanto e con lucidità i momenti in cui non sono stato libero da me stesso, dalla paura, dall’egoismo, dalla mediocrità. Ma anche la consapevolezza dei miei limiti e dei miei errori, non si è mai tradotta in paralisi.
Più che mai oggi sento che la vita e la fede sono “appello alla libertà”, una chiamata a vivere ogni giorno fuori dagli schemi dell’idolatria del mercato, lottando contro l’egemonia patriarcale e gerarchica, per una società laica in cui ci sia rispetto per il diritto di ognuno/a e la negazione del privilegio.
Pacatamente continuo il mio impegno di uomo, di prete e di teologo, guardando oltre questa chiesa gerarchica che si nutre di arroganza, che pretende privilegi e ritiene di avere l’esclusiva.
Dentro questa lotta appassionata e costruttiva, sento che la parola libertà si fa cammino, pellegrinaggio dei piccoli passi, sogno non evasivo, gioia di vivere e possibilità di condividere. Libertà per me significa anche attendere l’alba come le sentinelle. Esse sanno che la notte, per quanto lunga, lascerà posto alla luce del giorno.
Eppure il panorama è fosco e il cammino che attende gli uomini e le donne che fanno parte dei mille cantieri della liberazione è ora più complesso. I mezzi di comunicazione in larga misura sono diventati strumenti del potere che cerca con ogni mezzo di creare evasione, distrazione, manipolazione.
Come la lucida analisi di Zigmunt Baumann da vent’anni evidenzia, la caduta delle “grandi narrazioni” politiche e religiose ha creato la “solitudine del cittadino globale” e una cultura dell’individualismo esasperato in una società ormai in balia di una crescente incertezza.
I poteri forti del mercato, dei media, della militarizzazione (le tre M che sono la trinità capitalistica) viaggiano d’amore e d’accordo, per creare consumatori e videodipendenti, nell’accettazione della cultura militarista per cui i conflitti si risolvono con le armi e le guerre.
Davanti all’ecocidio in atto, davanti al frantumarsi del mondo delle relazioni, spesso ridotte a pure e semplici connessioni, non c’è tempo da perdere. Per questo, a mio avviso, è sempre più urgente dare spazio a quel lavoro di creazione di coscienze critiche e partecipative di cui ha ampio bisogno il nostro oggi.
La lezione di don Milani non è tramontata. E nutro la tenue speranza che, anche nella chiesa cattolica, dopo questa stagione di chiusura e di aggressività, tornino a farsi sentire voci di libertà.
Ora la gerarchia cattolica si è messa alla testa della destra planetaria e, aldilà delle declamazioni di pura retorica pauperistica, è diventata uno dei collanti più efficaci di tutte le forze che, dietro l’etichetta dei valori tradizionali, si organizzano per mantenere lo status quo.
Ma Dio e la coscienza umana restano due realtà che nessuna catena può imprigionare e nessun potere può soffocare. Questo non è il tempo di appartarsi dalla speranza e dalla lotta, di rifugiarsi nella nostalgia o di ritornare all’orticello, di ripiegarsi nella delusione per poi buttarsi nelle varie sagre del barolo, del cioccolato, del peperoncino, del tartufo… o nei voli misticheggianti o nelle declamazioni utopistiche.
E’ tempo di restare nei quotidiani, piccoli e concreti cantieri della liberazione con una forte dimensione di coinvolgimento personale e una visione politica che coniughi realismo e apertura all’ulteriorità e all’alterità utopica.
Lancio, a conclusione di queste note, una iniziativa che intendo realizzare. Si tratta di dare vita ad un incontro che chiamerei “Prove di Concilio” in cui possano esprimersi coloro che non trovano più spazio nella chiesa istituzionale non solo per esporre dissenso e protesta, ma soprattutto per avanzare proposte costruttive.
Lo scopo è quello di far nascere e crescere l’idea e l’esigenza di un nuovo concilio. Credo, in verità, che sarebbero maturi i tempi per un Concilio di tutte le chiese cristiane. Tali sono le “sfide” che il mondo di oggi rivolge al cristianesimo che a me sembrano non procrastinabili una riflessione ed un’azione comune tra tutte le chiese cristiane.
In attesa che maturi questo “evento”, penso che una nuova coscienza ecclesiale esiga non solo un altro Concilio, ma soprattutto un Concilio “altro”. Voglio dire che ormai è teologicamente maturo il tempo per una rappresentanza diversa. Il solo episcopato non può rappresentare adeguatamente una chiesa.
Oggi le donne, i preti sposati, i gay e le lesbiche credenti, i divorziati che vivono le seconde nozze, i teologi e le teologhe, il movimento “Noi siamo chiesa”, le comunità cristiane di base, i/le cristiani/e attivi/e nel volontariato o nell’impegno culturale, amministrativo e politico, nei movimenti della pace, nel femminismo, nelle lotte contro l’ecocidio e il patriarcato rappresentano un patrimonio di riflessione e di azione la cui voce è indispensabile per ripensare il senso della presenza cristiana nel mondo.
Tutte queste “presenze” debbono avere voce attiva, deliberativa e non solo consultiva. Oggi, insomma, un Concilio comporterebbe a livello teologico una presa d’atto della necessità di superare il modello precedente. Con i “padri conciliari” dovrebbero sedere le madri, i fratelli e le sorelle “conciliari”.
Senza questa rappresentanza reale del popolo di Dio un concilio clericale e patriarcale partirebbe con il piede sbagliato. Un altro Concilio se non sarà un Concilio “altro” sarà privo di vera autorevolezza evangelica.
Spero che questo “oltrepassamento” avvenga perché, senza questa coralità, la nostra chiesa potrebbe correre il rischio di imprigionarsi in un ghetto o di diventare un museo. La mia fiducia sta nel fatto che il “vento soffia… inarrestabile, irresistibile…”.
Facciamo nascere in ogni chiesa locale qualche “prova di concilio” perché il Vangelo chiama alla libertà e alla responsabilità, fuori dai silenzi complici.
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