venerdì 28 maggio 2010

MIA INTERVISTA A GILBERTO SQUIZZATO SU UN SUO LIBRO

LA TV CHE NON C’E’

di Gilberto Squizzato, Minimum Fax, 13 euro

con la prefazione di Beppe Giulietti

e una nota di Roberto Natale

 

Da cinque anni ormai subisci un pesante mobbing da parte della Rai che ti ha estromesso da ogni attività,  pur avendo ordinato il Tribunale del lavoro ormai da diciotto mesi il tuo pieno reintegro come autore e regista. Il libro nasce dunque come risentimento nei confronti di questa palese violenza?

            No.  Le mie vicende personali torneranno davanti al giudice a settembre. Se ho scritto LA TV CHE NON C’E’ è perché le cronache di questi mesi offrono lo spettacolo preoccupante di un a Rai nella quale moltissimi cittadini stentano ormai a riconoscere i tratti di un autentico servizio pubblico radiotelevisivo. Mi sembrato giusto raccontare la storia di questi ultimi quindici anni per aiutare a comprendere perché la Rai ha imboccato ormai quella che il suo stesso presidente Garimberti ha definito una lunga agonia, che può anche portare alla sua estinzione se non si adotteranno rimedi radicali.

            Qual’è a tuo avviso la causa fondamentale di questa malattia mortale?   

Nel libro spiego proprio questo, a cominciare dai meccanismi di occupazione che servono al sistema dei partiti e al governo che ad ogni elezione la considerano un bottino da spartirsi per quote. E mi chiedo perciò come restituirla ai suoi legittimi proprietari, cioè ai cittadini che pagano il canone, come cambiare radicalmente i criteri di nomina della sua governance, come ? Come garantire nei TG e nei GR un autentico pluralismo, dando voce non solo alla politica ma anche e soprattutto alle tantissime articolazioni della società (associazioni, sindacati, università, scuole, centri di ricerca, comunità locali).

Denunci anche la progressiva esternalizzazione dei processi di produzione dei programmi…

Questo è un altro dei mali che, a mio avviso, hanno ridotto la capacità della Rai di essere la più importante agenzia culturale del paese. Ma c’è anche la questione della pubblicità, che vuole programmi conformi alla sua visione del mondo, al suo modello di società fondata sul consumo e sull’omologazione e che preferisce prodotti evasivi, conformisti, privi di senso critico del reale, a volte anche trash. Quale dev’essere il corretto rapporto fra programmi e pubblicità in un autentico servizio pubblico? Se non si risolve questo nodo, inutile sperare in un miglioramento della qualità.

Tutta colpa del conflitto di interessi di Berlusconi? 

            Non solo. Infatti non faccio sconti al centrosinistra che non ha voluto nei suoi sette anni di governo sanare questa questione: anzi ha pensato fino a poco fa di “dimagrire la Rai”, vendendone una o due reti.

            Da dove ripartire? 

            Anzitutto da una diagnosi precisa della malattia: la progressiva omologazione della Rai alle emittenti commerciali, il mancato rinnovamento dei quadri editoriali, l’impoverimento del suo know per una politica di incentivazioni all’esodo dei dipendenti, la rinuncia ad avere un pool di formidabili autori interni, l’ipertrofia della burocrazia amministrativa a discapito dei quadri editoriali e creativi, l’alluvione di politici che esondano in ogni area del palinsesto, la mancata riforma federale di Rai Tre.

            Se questo è il quadro, allora non è meglio davvero privatizzarla?

            E chi ci informerà in modo disinteressato e davvero pluralista su quanto accade nel mondo? Chi ci darà un racconto della realtà fedele alla verità? Gli editori privato hanno il dovere di non dire falsità, ma non quello di dire tutta /(cioè tutte) le verità, dando voce soprattutto a coloro che voce non hanno: i lavoratori, i gruppi più deboli e non garantiti, i giovani che non inseguono il successo dei reality e dei talent show, i precari, i disoccupati, i quattro milioni di immigrati che vivono con noi, i loro figli della cosiddetta “seconda generazione”… Non sarebbe un paradosso spegnere il servizio pubblico radiotelevisivo proprio mentre dal satellite giungono nelle nostre case centinaia di canali controllati da potentissimi network planetari? E’ tempo che cominciamo a considerare l’informazione pubblica e anche l’onesto racconto della realtà che deve percorrere fiction, talkshow, telefilm, ecc. come un bene pubblico e strategico, esattamente come l’acqua della quale non vogliamo essere espropriati.

            Riuscirà la Rai a sopravvivere al progetto della P2 di svuotarla, di asservirla al governo e di renderla un residuo marginale del mercato radiotelevisivo?        

            Dipende da tutti noi. Vedo che molti si stanno muovendo in  questa direzione: movimenti di base, gruppi di facebook, associazioni per la libertà di stampa… La battaglia è tutt’altro che persa. Spero che il libro aiuti a inquadrare con una buona precisione la complessità dei problemi e le strategia da seguire, perché protestare non basta.