Proclama il comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20, 3). Cosa significa quel «di fronte a me»? Se volessimo compiere un calco letterale (eccessivo) dell’ebraico, si dovrebbe tradurre così: «non saranno a te dèi altri sopra il mio volto». Vale a dire: non bisogna sovrapporre altro al volto del Signore. La constatazione che il Signore, all’inizio del Decalogo, si presenti come colui che ha fatto uscire il suo popolo dall’Egitto comporta che Egli si sia già manifestato. Il precetto quindi non va inteso nel senso che Dio, rivolgendosi al popolo ebraico, gli dica: «adesso non devi più essere idolatra e devi credere al Dio unico». Questa fede c’era già. Per dirla in breve: il comando è rivolto a monoteisti e non già a politeisti o a pagani. L’idolatria di cui parla il Decalogo va compresa, per usare termini contemporanei, come una degenerazione, o, se si vuole, un tradimento della fede.
Il «non avere altri dèi di fronte a me», significa non offuscare la fede nel Signore costruendo idoli che lo deturpano. L’idolatria è una tentazione perenne di ogni credente nel Dio vivo e vero.
Quali siano gli idoli propri di coloro che accettano il patto, può essere riassunto in una formula: è tutto quanto offusca l’immagine di Dio liberatore che chiama alla libera scelta di accettare la sua regalità... Si può proporre una formula molto sintetica ed evocativa: all’interno dell’accoglimento del patto, essere idolatri significa servirsi di Dio in luogo di servirlo. Il cuore di ogni idolatria antica o contemporanea, sta nel fabbricare immagini sacre – in senso proprio e soprattutto in senso lato – al fine di servirsene per qualche scopo di parte. In definitiva, il comandamento non dichiara «scegli Dio piuttosto che gli idoli»; il suo imperativo è un altro: «non trasformare Dio in idolo».
(Piero Stefani)