sabato 28 gennaio 2012

BELLEZZA E CONCRETEZZA DELLA RICERCA TEOLOGICA

TRASCENDENTE O IMMANENTE? ONNIPOTENTE O IMPOTENTE?

 

Dopo Auschwitz e dopo lo sviluppo delle feconde ricerche ed elaborazioni scientifiche sulla “nascita dell’universo”, le teologie sono state sollecitate a riproporsi l’interrogativo, mai sopito, della presenza – assenza di Dio.

Di fronte alla deformante visione della trascendenza sfociata nella concezione di un Dio provvidenzialista e conduttore della “locomotiva del creato”, si è elaborata un’interpretazione panenteistica (non panteistica) del Dio immanente che sottolinea in modo efficace la compagnia del Dio creatore, la Sua presenza dentro il farsi evolutivo e dinamico delle cose. Così di fronte ad un Dio che non è intervenuto ad Auschwitz e in tante altre situazioni quotidiane, sulla scorta di Jonas e altri pensatori ebrei e cristiani, abbiamo rapito a Dio il “medaglione dell’onnipotenza” per ricollocarLo, confezionato su misura dei fatti, nella tessera dell’impotenza.

Non voglio contestare questa mobilità di pensiero, questi tentativi di nominare Dio in nuovi contesti storici, in relazione al vissuto. Anzi, senza questi interrogativi, il linguaggio della fede diventerebbe inespressivo. La mia è una riflessione che muove da un aspetto tanto metodologico quanto contenutistico. Mi lascia perplesso questo bisogno di “assegnare a Dio un posto fisso” nel concerto della storia con categorie razionali così definite. La varietà e l’interscambiabilità, la mobilità e la parzialità dei linguaggi biblici, narrativi, sapienziali, mistici e liturgici con cui la tradizione ebraico-cristiana e le varie vie religiose hanno “nominato” e “relazionato” con il mistero di Dio mi allertano davanti a questa ossessione duale: o onnipotente o impotente, o trascendente o immanente. All’aut-aut preferisco l’et-et.

In questa riflessione mi trovo in perfetta sintonia con il pensiero e la feconda ricerca di due teologhe. La prima è Elisabeth Johnson, che ne ha scritto nel suo prezioso volume Colei che è (Queriniana). La seconda è Francesca Spano, recentemente scomparsa.

 

Elisabeth Johnson (da pag. 457 a 535):

“L’unico Dio relazionale, proprio perché è sommamente trascendente, non limitato da nessuna categoria finita, è capace della più radicale immanenza, essendo in relazione intima con ogni cosa che esiste”. In sostanza si tratta di “salvaguardare la radicale distinzione tra Dio e il mondo, pur promuovendo la loro relazione reciproca, seppure asimmetrica”. Il panenteismo (che è altra cosa dal panteismo) include sia la trascendenza divina sia la Sua immanenza. “La trascendenza divina è pienezza che comprende tutte le parti, abbraccia il mondo anziché escluderlo, come suggerisce l’etimologia del panenteismo, ‘tutto-in-Dio’, mentre all’immanenza divina si attribuisce il dinamismo interno e lo scopo del mondo. Trascendenza e immanenza sono piuttosto correlativi che opposti […]”. “La Santa Sapienza abbraccia in modo trascendente tutta l’esistenza finita in una relazione inclusiva che rende liberi e la chiama a uno shalom comunitario, personale e cosmico” (ip. 450).

La stessa teologa, rispetto alla riflessione sul “Dio sofferente” riporta il pensiero di una donna: “‘Se fossi in fondo ad un profondo pozzo, dolorante, infreddolita, a cullare il mio braccio spezzato, ciò che vorrei e di cui avrei urgentemente bisogno è un Salvatore con una luce molto potente e una lunga scala, pieno di forza, di gioia, di sicurezza che possa tirarmi fuori dal pozzo, e non un Dio che siede accanto a me nell’oscurità e soffre con me’. Ciò che respinge giustamente questa donna è il concetto di un Dio sofferente impotente, l’antitesi del Dio onnipotente”.

Forse si tratta di pensare il “potere onnipotente” di Dio non come potere di dominio e di controllo, “ma come il potere liberante che collega ed è efficace nell’amore compassionevole. Dio-Sophia è in solidarietà con coloro che soffrono come un mistero che dà forza”.

Küng aggiunge che chi crede alla risurrezione non potrà facilmente fermarsi al Dio impotente.

 

Francesca Spano  

La seconda persona che vorrei citare è Francesca Spano, una donna protestante che ho avuto la fortuna di conoscere. Poche persone hanno avvertito come lei la presenza del “Dio immanente”, presente nell’oceano della storia e nell’intreccio delle relazioni. Eppure avrebbe detestato questo linguaggio. La sua allergia mi ha sempre aiutato ad usare questi linguaggi con discernimento, consapevole del loro valore e del loro limite. Voglio riportare queste righe che sottolineano l’altra dimensione, a me carissima e insopprimibile: “Noi protestanti siamo cresciuti con l’idea centrale del Dio totalmente altro da noi. Questa idea va ribadita perché fondamentale: noi possiamo essere noi stessi proprio perché non siamo Dio, perché non esiste confusione possibile tra il creatore e la creatura, perché noi non siamo delle appendici di Dio, ma i Suoi interlocutori, da Lui totalmente separati e distinti. Tuttavia il testo (Deuteronomio 30) ci propone un’espressione forte, incisiva, inquietante. Dovremmo non solo amare l’Eterno e obbedire ai Suoi comandamenti, ma tenerci stretti a Lui, poiché Egli è la vita […]. Nella relazione tre me e il mio Dio esiste questa tensione radicale: il massimo della lontananza e il massimo della vicinanza. È questa relazione appassionata […] che fa oggi esistere me, ciascuno di noi, come individuo. Io ci sono, esisto, perché Dio mi interpella in tutta la Sua alterità, ma nello stesso tempo sono stretta a Lui, presa ma anche individuata, accolta ma non compressa. La mia vita sussiste, si prolunga nei giorni, costituisce una storia, proprio perché Dio mi interloquisce da lontano e nello stesso tempo mi assume da vicino. Dobbiamo riportare Dio, la Sua relazione con noi, al centro della nostra vita” (Con rigore e passione, Claudiana, p. 70). 

Non sembrano qui sorelle gemelle la trascendenza e l’immanenza?

La presente discussione può sembrare di primo acchito un tantino accademica, ma non lo è affatto. Il “respiro” della nostra vita e della nostra fede ha bisogno di uscire dalle prigioni ideologiche. Tanto meno possiamo in esse illuderci di rinchiudere Dio, il Suo straripante e imprendibile mistero.

                                     Franco Barbero