domenica 26 agosto 2012

La disabilità, il tempo e l’affetto

In una grande libreria un ragazzo con problemi psicologici chiede a voce alta sempre le stesse informazioni agli addetti. Un addetto lo ascolta, lo intrattiene, lo rassicura e il ragazzo se ne va soddisfatto. «Le devo fare i complimenti - gli dico - per l'umanità con cui ha trattato quel ragazzo». Lui, con un accento del Sud, mi dice che ha fatto solo quello che si sentiva di fare.
MASSIMO MARNETTO

 
La disabilità richiede tempo. Chi ne soffre impara a muoversi lentamente, ad apprendere o a capire più lentamente. Ad andare più lentamente dei "normali". Quella che corrisponde alla lentezza, però, è una qualità particolare del contatto, una densità speciale del rapportarsi all'altro e mi e capitato spesso di pensare, in tanti anni di attività professionale con i "diversi" della mente e del corpo, che sia soprattutto per questo che tanti "normali" sfuggono dal contatto con loro. Perché il tempo che viviamo è quello in cui tutti, indistintamente, vanno di fretta. Come se fosse fondamentale economizzare il tempo di cui spesso poi non si sa che fare. Come se l'uomo (e presto anche il bambino moderno) vivesse questo obbligo, doppio e opposto, di accumulare e disperdere il tempo. Ma perché, anche, il tempo che viviamo è quello in cui i contatti con l'altro tendono a essere deboli e rapidi, via telefono e sms meglio che di persona. In cui è difficile vivere, dunque, soprattutto per il disabile cui non capita spesso di verificare e di pensare che la sua è davvero una abilità diversa e che si ritrova spesso, nella solitudine delle nostre città a cercare persone disposte a dargli il tempo e la disponibilità affettiva di cui lui ha un bisogno aperto e chiaro e di cui agli altri capita di vergognarsi.
Luigi Cancrini
(L'Unità, 7 agosto)