mercoledì 26 settembre 2012

Ho una crisi di fede…

Nel mio pastorato mi sono accorto che la crisi che molti credenti sperimentano non è tanto di fede, bensì è in relazione all'edificio teologico in cui sono stati formati.

Sono molti anni che incontro e converso con persone che mi raccontano di passare attraverso una crisi di fede. Si sentono come se tutto il loro mondo di sicurezze religiose gli cadesse addosso. Si sentono mancare la terra sotto i piedi.
Quando parlo con loro, mi accorgo di qualcosa di grande importanza: la crisi che molti di essi sperimentano non è necessariamente di fede, bensì è in relazione alla teologia in cui sono stati formati.
La visione teologica del mondo che li ha sostenuti per anni è naufragata. E' lì il nocciolo della questione.
Il problema che alcuni di noi hanno non ha niente a che vedere con il fascino che ci produce, o ci ha prodotto, la persona e la prassi di Gesù. Piuttosto è in relazione a quello che qualcuno ha denominato «l'idolatria della Scrittura», l'idolatria della lettera teologica, scolpita su pietra, nella quale siamo cresciuti.
Abbiamo confuso Gesù di Nazareth con la lettera, trasformandola in un idolo che adoriamo e serviamo.
In poche parole, forse è l'edificio teologico in cui abbiamo vissuto per anni che sta crollando e non il messaggio liberante di Gesù.

E'curiosa la relazione che Gesù intrattenne con le persone che l'ortodossia teologica del tempo qualificava come «peccatori». Nelle sue conversazioni con i «peccatori» non si intuisce nessun test teologico che questi ultimi dovessero superare prima di poter accedere alla sua compagnia, mangiare alla sua tavola e sperimentare personalmente la liberazione esistenziale e sociale (salvezza/guarigione) che il Galileo portava loro. No. Anzi, egli li esortava a iniziare un viaggio esistenziale sui binari della giustizia e della misericordia che li avrebbe condotti a un mondo nuovo (quello che lui chiamava «il regno di Dio»). Questa è la cosa veramente importante, non il resto.
Essere cristiano non consiste nell'entrare, per poi rimanere bloccati, in un determinato edificio teologico, per quanto ben costruito possa essere o solido possa apparirci. Essere cristiano significa dire sì a Gesù e allo stile di vita che ci ha proposto, nella pratica quotidiana. A partire da questo «sì», e nel processo di camminare seguendo la giustizia e la misericordia, arriverà l'incontro con ciò che è trascendente, con ciò che non capiamo, con ciò che solo intuiamo... l'incontro con il Dio, Padre di Gesù.
Per questo, secondo la mia opinione fallibile, se stai attraversando ciò che sperimenti come una crisi di fede, ti suggerirei di separare la tua fede in Gesù dalla struttura teologica in cui, forse, lo hai sequestrato.
Lascia sprofondare definitivamente l'edificio e cerca di seguire Gesù, solo Gesù. Giungerai alla convinzione che non stai attraversando nessuna crisi di fede, bensì una crisi del filtro che hai utilizzato per anni per leggere e interpretare la persona e il messaggio del profeta di Galilea.

Permettimi di mettere in evidenza l'importanza di saper distinguere tra ciò che è una crisi di fede e di fiducia in Gesù, che ci viene incontro per mezzo dell'Evangelo, e ciò che invece è una crisi dell'interpretazione teologica nella quale sei o siamo stati educati. Non devi allontanarti da Gesù di Nazareth e dalla sua prassi - lui ci convince sempre - ma dall'interpretazione di lui che ti è stata insegnata.
Questa necessaria «demolizione» che ti propongo, non puoi compierla da solo, ma in buona compagnia. Dirò di più: sarebbe bene che tu cercassi qualcuno di tua fiducia, e che abbia affrontato la stessa esperienza, per accompagnarti nel processo di «demolizione» dell'edificio teologico che, con molta probabilità, è l'unica causa della tua esperienza di crisi per trovarti finalmente faccia a faccia con Gesù di Nazareth. Posso infatti assicurarti, per esperienza personale, che c'è vita oltre i dogmi e la teologia sistematica, non importa il nome che questa abbia.
A mo' di esempio ricorderò la predicazione apostolica raccolta nel libro degli Atti degli Apostoli. E importante notare che quello che gli apostoli presentarono ai loro ascoltatori fu Gesù di Nazareth, perché è lui il contenuto dell'Evangelo e nient'altro all'infuori di lui. Gli apostoli non fanno menzione alcuna della teologia dell'espiazione o di un'altra cristologia. Affermano semplicemente che ci fu un uomo che visse, agì e parlò in un modo non convenzionale («camminò facendo il bene e liberando tutti gli oppressi», At. 10, 37-38). Dio era in lui e con lui. Eppure, proprio per essere fedele al Dio in cui credeva, le autorità religiose, attraverso il braccio secolare, lo torturarono e lo assassinarono condannandolo ingiustamente alla pena di morte.

E' questo il Gesù in cui crediamo, in cui confidiamo e che seguiamo. Ed è proprio nel metterci faccia a faccia con la sua vita e la sua prassi che ci troviamo dinanzi a un bivio: cambiare il nostro orientamento esistenziale (pentimento e fede in Gesù) o non farlo affatto. Se scegliamo la prima opzione, scopriremo lungo il cammino che egli è colui che fu vendicato da Dio, contro ogni pronostico, con la resurrezione dalla morte e che lui è il Signore di tutti. Tutto il resto, ciò che ci viene proposto dai dogmatici, è probabilmente un di più, e solitamente è questo «di più» a condurci, in modo irrevocabile, alle crisi esistenziali che denominiamo, erroneamente, «crisi di fede».

Desidero concludere questa riflessione con un verso del poeta spagnolo Antonio Machado che fondamentalmente sintetizza tutto ciò che è stato scritto finora. Machado nel suo poema La saeta stabilisce un contrasto radicale tra il Gesù della teologia «ufficiale» (Gesù sul legno/croce) e il Gesù dei Vangeli (colui che camminò sul mare). Ed è a quest'ultimo che si, vuole cantare!
«Oh, no, questo non è il mio canto!
Non posso cantare, né voglio
a questo Gesù sul legno,
ma a quello che camminò sul mare!»

Personalmente sono anni che, cosi come il poeta, ho smesso di credere nel «Gesù del legno» per credere, invece, nel Gesù «che camminò sul mare». E questo mi ha reso in grado di camminare senza ostacoli aggiuntivi lungo il percorso controcorrente che Gesù di Nazareth mi propone per costruire un mondo migliore nell'attesa di ciò che egli definì «regno di Dio». Per questo, faccio mie le parole del cieco nato (Giovanni 9, 24-25) che davanti alla certezza dei teologi di turno («noi sappiamo»), si limitò a rispondere «... io non so; una cosa so, che ero cieco e ora ci vedo».
Ignacio Simal

*pastore della Chiesa evangelica spagnola (Metodista-presbiteriana), è presidente della Tavola delle chiese evangeliche della Catalogna - IEE. La trad. dallo spagnolo del testo di Simal è a cura di Patrizia Tortora.
(Riforma, 21 settembre)