Sono tutt’altro che un vaticanista, ma mi ha molto sorpreso, nel vasto cordoglio suscitato dalla morte di Carlo Maria Martini, leggere così poco (quasi nulla) a propostito del suo essere, nel mondo cattolico, uno sconfitto. Un grande sconfitto, ma uno sconfitto, dentro una Chiesa che ha via via dismesso lungo gli anni, lo spirito del concilio Vaticano II con il suo ecumenismo, il forte afflato sociale di quell’irripetibile momento storico, l’allentamento della spinta dogmatica, chiudendo uno dopo l’altra le porte e le finestre che il pontificato di Papa Roncalli aveva aperto in così poco tempo. Nella sua ultima intervista al Corriere, lo stesso Martini, parlando di una Chiesa “in ritardo di duecento anni” (!!), sottolineava, neanche tanto indirettamente, la notevole distanza che lo separava da Roma. Nè il riferimento desolatamente critico ai “riti e agli abiti pomposi”, insomma alla restaurazione della Forma, pareva casuale nelle sue parole, regnante Ratzinger.
Capisco che quando muore una personaloità di così grande spessore umano e intellettuale prevalga l’urgenza di rendergli omaggio. Ma la personalità in questione era – mi scuso per il piatto politicismo – il capo dell’opposizione, e di un’opposizione sbaragliata dalla restaurazione. Non è un dettaglio.
(Repubblica 3 settembre, Michele Serra)