sabato 24 novembre 2012

“IN NESSUN ALTRO C’E’ SALVEZZA” ?

Il contesto
Nel libro degli Atti degli apostoli troviamo un testo che sembra escludere la stessa possibilità di concepire una via di salvezza fuori dall'orizzonte cristiano. Così come suona, rappresenta un'affermazione netta, categorica, "assolutizzante": "questo Gesù è la pietra che, scartata da voi costruttori, è diventata testata d'angolo. In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (4,11-12).
Pur nella estrema brevità che mi è richiesta da queste note, ricordo che il brano è situato nel contesto drammatico in cui Pietro e Giovanni, dopo la "guarigione" dello storpio, vengono accusati di riempire Gerusalemme del "nome" di Gesù. La predicazione suscita interesse tra la gente e preoccupata indignazione tra i capi e i sacerdoti. Portati in tribunale, Pietro e Giovanni non hanno alcuna intenzione di piegarsi alle imposizioni del potere, ma proseguono nella loro coraggiosa testimonianza: "Giudicate voi stessi che cosa è giusto davanti a Dio: dobbiamo ascoltare voi oppure dobbiamo ubbidire a Dio? (4,19).
Il testo è stato usato ed abusato.
Certo, non dobbiamo pensare di trovarci, leggendo gli Atti degli Apostoli, di fronte ad una cronaca puntuale dei fatti o ad un resoconto preciso del discorso di Pietro. Si tratta di una "ricostruzione" lucana, fatta a distanza di molti anni. Ma questo non esclude affatto che noi siamo ricondotti fedelmente alla sostanza del conflitto che la predicazione cristiana scatenò fin dalle sue origini a Gerusalemme contro i funzionari, i sacerdoti, i sadducei, i capi del popolo. I discorsi degli Atti, in qualche misura, ci fanno gustare il clima e lo scenario delle origini e ci mettono in contatto con la quintessenza e il cuore del messaggio cristiano, così come veniva annunciato agli albori del movimento di Gesù.

Il testo
Il versetto 11, cioè la prima parte di questo breve testo, riprendendo il salmo 118, "formula un inno di lode e di confessione, nel quale ancora una volta viene espresso il significato di Gesù, in contrapposizione al rifiuto" (Klaus Kliesch) da parte dei notabili. Colui che è stato rifiutato dai capi, viene scelto da Dio: ecco la provocazione che il potere non può accettare, la realtà che non vuole vedere. "La tradizione giudaica antica ha letto nel salmo 118 il destino del messia. Nessuna meraviglia che la prima comunità cristiana abbia ripreso questo testo per esprimere la propria fede in Gesù, il messia rifiutato dai capi giudei, ma posto da Dio come pietra di fondamento..." (Rinaldo Fabris). Bisogna capire la concezione culturale e l'ottica in cui, secondo la "mentalità" del tempo, le comunità primitive ricordavano e "nominavano" Gesù. Racconti, discorsi e titoli vari, con cui descrivevano l'opera del profeta di Nazareth, si prefiggevano "tutti di indicare la funzione centrale nella quale Dio ha collocato Gesù, al centro del tempo, a compimento di tutte le promesse fatte prima" (U.Wilckens).
Questa assoluta necessità di passare attraverso la persona, l'opera e il nome di Gesù per "avere la salvezza" è presentata come perentoria volontà di Dio che non ammette eccezione di sorta. Questo è l'unico nome "dato" da Dio agli uomini e alle donne "sotto il cielo" (cioè in tutto il mondo) in cui possano (il testo greco dice "dobbiamo") essere salvi. Il versetto 12, prima citato, rappresenta così come suona, una affermazione che non lascia scampo. In Gesù Dio dona l'unica via di salvezza.
"L'esclusività (e universalità) della mediazione salvifica di Gesù Cristo ... viene motivata ancora una volta negativamente dal fatto che (da Dio) non è "dato" nessun altro nome, nessun'altra persona sotto il cielo come via salvifica. Dio ha vincolato la salvezza al nome di Gesù" (Rudolf Pesch). "Ancora una volta non si fa praticamente distinzione tra nome e persona" (Gerhard Schneider). O si passa attraverso Gesù oppure non c'è accesso alla salvezza: ecco la cultura che imprigiona, come ideologia totalizzante, il nostro testo.

Il pretesto, cioè la cultura da cui proviene
Di fronte alle affermazioni di questo capitolo biblico, chi non compie un serio lavoro di interpretazione conclude che ... tutti devono convertirsi al cristianesimo, farsi cristiani. Qualche altro, lievemente più spudorato, ripete che "fuori della chiesa non c'è salvezza".
Non possiamo negare che tali letture, ancora recentemente, hanno invaso le nostre teologie cristiane, non solo quella cattolica.
Oggi, grazie all'apporto degli studi biblici, questo testo non rappresenta per nulla un ostacolo alla visione universalistica.
Chi ha scritto questo testo era figlio di una cultura in cui si dava per scontato che la verità fosse una, certa, immutabile, normativa: "Se questa è la verità, tutto il resto è menzogna". La verità si poneva in rapporto a precise alternative: chi è nella verità e chi è nell'errore. Una posizione vera eliminava la stessa possibilità di altre "verità". Era pressoché impossibile pensare in termini di compresenza di più strade valide nel cammino verso la verità. "Pertanto, quando i cristiani incontrarono la sconvolgente verità di Gesù dovettero inevitabilmente descriverla come la verità unica e definitiva", dato il loro condizionamento culturale. Del resto, nella vita dei discepoli e delle discepole era avvenuta una profonda esperienza personale e comunitaria: l'uomo Gesù e il suo messaggio avevano risvegliato i loro cuori, avevano trasformato le loro vite, impresso loro nuove direzioni. "Dato il contesto culturale in cui simili esperienze si verificarono, era cosa naturale, anzi necessaria che, tentando di parlare di esse, lo si facesse in termini di definitività e di esclusività. In un certo senso non c'era altro modo, altro linguaggio per parlare di quanto Gesù aveva compiuto nelle vite di alcune persone" (Paul Knitter).
La natura di questo linguaggio esclusivistico "ci parla più della situazione sociale della chiesa primitiva che della natura ontologica di Gesù" (Paul Knitter). Il suo scopo è l'invito "morale", l'esortazione a sentirsi parte della comunità della salvezza più che non la precisa volontà di dirci chi è Gesù. "Tutti gli aggettivi del tipo l'unico e solo" usati per descrivere Gesù non appartengono al linguaggio della filosofia, della scienza o della dogmatica, ma piuttosto al linguaggio della confessione di fede e della testimonianza" (F. Young). "Gli autori del Nuovo Testamento, quando parlano di Gesù, non usano il linguaggio dei filosofi analitici, ma quello dei credenti entusiastici; non il linguaggio degli scienziati, ma quello di chi ama" (P. Knitter). Questo linguaggio "somiglia molto a quello che un marito usa nei confronti di sua moglie (o viceversa): 'Sei la donna più bella del mondo... sei l'unica donna per me'. Tali affermazioni sono certamente vere nella relazione coniugale e specialmente nei momenti di intimità. Ma il marito rimarrebbe interdetto se gli domandassimo di giurare che nel mondo non vi sono assolutamente altre donne belle come sua moglie ... Parlare così significherebbe usare un tipo molto diverso di linguaggio, in un contesto molto differente. Significherebbe trasformare il linguaggio dell'amore in un linguaggio scientifico o filosofico". (P. Knitter).
Come potevano le comunità primitive, mentre si appassionavano alla strada di Gesù, mentre seminavano ai quattro venti e narravano a tutti la loro esperienza usare un linguaggio tecnico e distaccato? La loro predicazione non assomigliava in nulla al linguaggio dogmatico del nuovo catechismo. Non erano ancora contagiati dall'ossessione della ortodossia. La predicazione era una narrazione amorosa, appassionata, certamente enfatica ed apologetica. Gli scritti ne sono la eco.

E noi oggi?
Oggi noi possiamo prendere coscienza di un fatto: per essere vera, una cosa non ha bisogno di essere assoluta. In quanto "modello di verità" (che va ben compreso), 1a verità non sarà più identificata dalla sua capacità di escludere o assorbire altri. Quel che è vero, rivelerà piuttosto se stesso principalmente mediante la sua capacità di porsi in relazione con altre espressioni della verità e di crescere attraverso tali relazioni... Nessuna verità può stare da sola. La verità ha bisogno, per sua stessa natura, di altre verità.
Se non è in grado di porsi in relazione, è il caso di porre in discussione la sua qualità di verità...
La verità, perciò, "prova se stessa" non trionfando su tutta l'altra verità, ma verificando la sua capacità di interagire con altre verità" (P. Knitter).
Non devo assolutamente amare di meno la strada sulla quale Dio mi ha posto se scopro che lo stesso Dio ha donato strade diverse ad altre donne e altri uomini. La loro verità (anch'essa parziale) mi interpella, ma non "rinnega".
Tutto l'amore e l'entusiasmo che hanno caratterizzato le primitive comunità cristiane possono arricchirmi, anche se io non esprimerò questo entusiasmo per l'esperienza che faccio sulla strada di Gesù con linguaggi esclusivistici.
Posso ricevere e condividere il messaggio di amore, di impegno, di identificazione che da loro mi viene, ma lo esprimerò con accenti nuovi, in una cultura che sa rallegrarsi del pluralismo.
Posso benissimo appassionarmi alla mia strada benedicendo e lodando Dio che, avendo un cuore grande ed aperto, vuole dilatare anche i nostri. Così, questo testo biblico che sembrava imprigionare la salvezza di Dio dentro il perimetro dell'esperienza cristiana, diventa l'occasione, se faccio cadere l'ideologia esclusivista che lo sorregge, per diventare attento a non chiudere l'azione di Dio nello stretto spazio del nostro orto, a non confondere il Vangelo con i linguaggi di una cultura.

Franco Barbero
(da Il Giubileo di ogni giorno)