martedì 28 maggio 2013

BEATO FRA I MAFIOSI

 

La sera del 19 maggio 1993, di fronte alla sua abitazione di Brancaccio, popolare quartiere di Palermo, veniva assassinato da un gruppo di fuoco don Pino Puglisi. Tra qualche giorno la Chiesa di Roma riconoscerà beato questo suo singolare presbitero.
 Puglisi è stato forse l’ultima vittima della più recente stagione stragista di Cosa Nostra, prima che una parte delle istituzioni della Repubblica cominciasse a combattere la mafia, spinta dall’opinione pubblica; altri sostengono, prima che una diversa parte delle istituzioni decidesse di avviare un processo di pacificazione con Cosa Nostra, per accompagnarne svecchiamento e riconversione.
Non ci occuperemo della cosa in queste poche righe, né della stucchevole polemica se sia opportuno essere fatti santi, o della differenza tra adorazione al santo e preghiera. Vogliamo invece ricordare un altro episodio: l'attentato di Ciaculli del giugno del 1963, in cui persero la vita sette uomini delle forze dell’ordine. Dopo l’attentato di Ciaculli, la chiesa valdese di Palermo, guidata dal pastore Pietro Valdo Panascia, pubblicò il famoso manifesto intitolato «non uccidere».
 In città vogliamo ricordare entrambi gli anniversari.
A luglio con un’iniziativa sul manifesto di Panascia, mentre martedì 21 maggio presentiamo un bel libro su don Pino, per nulla agiografico: «Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia». Vorrei lasciarmi guidare da due spunti offerti al lettore da Augusto Cavadi. Il primo: uno degli elementi di pericolosità di Pino Puglisi e del suo agire in contatto e in relazione con i suoi concittadini di allora fu il non accontentarsi della sola riflessione. Egli seppe coniugare riflessione e azione sociale. Seppe, da insegnante, rapportarsi con diverse anime della città e tradurre in gesti nonviolenti e profetici le sue e le altrui idee contro la mafia. Il secondo: non fu un uomo o un prete «normale». Una persona mite sì, così viene descritto da chi lo conobbe, ma non normale. Don Puglisi non si adeguò al clima clientelare che vigeva nella diocesi, e mai decise di scendere a patti con chi voleva che il suo quartiere restasse arretrato e disgregato, per offrire manovalanza alle cosche. Subì per questo scoraggiamento e stanchezza, solitudine, fu costretto a esporsi, alla fine fu ammazzato, ma non accettò mai quella «normalità» che si traduce in acquiescenza e in fin dei conti in complicità.

(24 maggio, Riforma, Francesco Sciotto)

La gerarchia cattolica che prima lo lasciò solo, ora con la consueta ipocrisia lo proclama santo.