sabato 31 agosto 2013

Come è difficile per gli adolescenti fare coming out

Dire «sono lesbica, sono gay», resta per gli adolescenti omosessuali l'impresa più difficile. Dirlo agli amici, ai compagni di scuola, ai genitori. E può non bastare. Alla dichiarazione fanno seguito spesso conseguenze non calcolate. L'ultima tragedia accaduta a Roma, che ha visto un quattordicenne gay togliersi la vita per la non accoglienza intorno a sé impone il tema del coming out.
Ci sono le reazioni estreme: i giovani vengono cacciati di casa o si sentono dire «meglio malato che gay», afferma Angela Infante, counselor, consulente familiare e formatrice degli operatori della Gay help line 800713713, il numero verde che riceve migliaia di segnalazioni al mese. Spesso a un silenzio iniziale si allacciano mesi di sotterranee o palesi negoziazioni. «Per un po' i genitori tacciono o la prendono alla larga. Chiedono: sei sicura o sicuro che non si tratti di un sentimento passeggero? Non è possibile che sia solo una fase? Forse è meglio che parliamo con un esperto. Diventa evidente che dietro il tatticismo c'è il rifiuto del genitore», continua Infante. Tra l'ascolto e l'accettazione può esserci un abisso. Per formare gli operatori occorre evitare che proiettino su coloro che si rivolgono al numero verde le loro personali esperienze. Angela Infante inizia da una domanda: «Chiedo ai futuri operatori di raccontarmi il loro coming out. Quasi tutti mi parlano di ostacoli e tensioni in famiglia». E' necessario scegliere il momento giusto per dirlo. La rivelazione che arriva alla fine di un litigio può essere rovinosa. «II ragazzo e la ragazza che in un momento di forte conflitto perdono la testa e urlano la propria omosessualità rischiano». Anche se non c'è un'aggressione palese e violenta, il «coro» di voci di sottofondo spinge l'adolescente omosessuale a vivere braccato. «A tutt'oggi mi continuano ad arrivare richieste di aiuto di giovani lesbiche, gay, bisessuali e trans schiacciati dal peso del pregiudizio e dello stigma. Spesso isolati. Molti di loro mi raccontano della difficoltà di essere autentici con i loro amici o compagni di classe, di avere il terrore di essere rifiutati dai loro genitori, di subire discriminazioni, pressioni psicologiche, derisioni, umiliazioni. Dicono di sentirsi soli e isolati ancor prima di riuscire a fare coming out», afferma Claudio Cappotto, psicoterapeuta, coordinatore delle attività psicologiche dell'associazione Agedo Palermo. «La scuola è il luogo principale nel quale questi disagi e violenze vengono prodotti, promossi e legittimati. Quando entro nelle scuole per fare attività di sensibilizzazione e prevenzione dell'omofobia, mi succede di ascoltare nei corridoi o nelle classi espressioni del tipo: "manco uno normale, tutti froci", "mi. femmine complete sono questi", "ragazze ma a voi piacciono sti pezzi 'i froci?", "ma sei gay?", il tutto condito con un sorrisetto compiaciuto, di qualche docente. Decido di non lasciare cadere la cosa, dico agli studenti che forse quel ragazzo romano gay che si è buttato dal terzo piano o quella ragazza lesbica che mi ha scritto dicendomi di volerla fare finita hanno in comune il fatto di avere ascoltato per tutta la loro vita frasi come quelle che loro hanno appena pronunciato. Non solo, dico che se proprio in quel momento una ragazza lesbica e un ragazzo gay stanno cercando di capire la propria affettività, con quegli atteggiamenti e con quelle parole non solo non li aiutiamo ma li feriamo profondamente».
Che fare? «I Pride, gli interventi formativi ed educativi, le politiche sociali; hanno senso solo se sono un'aggiunta allo strumento educativo e di trasformazione più dirompente e cioè alle nostre relazioni quotidiane. Ogni volta che lasciamo cadere un'espressione, un gesto, un atteggiamento sessista e omo-trans fobico stiamo legittimando quel sistema culturale che li ha prodotti e riprodotti», conclude Cappotto. E Angela Infante: «Dobbiamo parlare del coming out in forma strutturale. Non è questione né di legge né di emergenza. Manca il dialogo genitori-figli, i genitori sono diventati i cosiddetti migliori amici dei figli e questo vanifica il loro ruolo». Sfugge infatti che, le famiglie, quando va bene, tendono a «tollerare» l'eccezione del figlio o della figlia gay, laddove se tra parenti c'è una persona omosessuale o trans tutto il nucleo è in trasformazione.
Conclude Infante: «Ci sono modalità precise per affrontare e sostenere un percorso di accoglienza. Ma la famiglia oggi è completamente sprovveduta».
Delia Vaccarello

(L'Unità 14 agosto)