giovedì 30 gennaio 2014

IL MONDO CHE PREGA

Dal Tibet alle Ande, dall’India all’Egitto fino ad arrivare al centro del Sahara. Così nei luoghi più impervi gli uomini cercano Dio.
Un ragazzo cammina tra le dune di un immenso deserto silenzioso, migliaia di pellegrini pregano alla Mecca, un giovane diacono legge la Bibbia accoccolato nell’incavo di una finestra, che lo contiene come un grembo, un gruppo di fedeli sull’altopiano andino prega davanti a una roccia, una donna compie un bagno rituale nel Gange, una giovane pellegrina al Monte Kailash ci osserva col volto cosparso di una sostanza protettiva. Sono queste alcune delle circa duecento magnifiche immagini scattate in oltre quarant’anni di attività dal fotografo giapponese freelance Kazuyoshi Nomachi (Mihara, 1946) ed esposte, per la prima volta in Occidente, in una grande antologica intitolata Le vie del sacro (fino al 4 maggio alla Pelanda di Roma, catalogo National Geographic, www.mostranomachi.it).
La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma, dal Macro e da Civita, è ospitata nell’ex Mattatoio di Testaccio, negli spazi espositivi della Pelanda ed è concepita come un cammino, un ideale pellegrinaggio, attraverso sette sezioni corrispondenti ai luoghi visitati da Nomachi alla ricerca del sacro: Sahara, Nilo, Etiopia, Islam, Gange, Tibet e Ande. Il percorso è tracciato da un allestimento suggestivo ideato dall’architetto e scenografo Peter Bottazzi, che ha saputo bene interpretare l’idea del viaggio preferendo, ai tradizionali pannelli espositivi a parete, degli ariosi supporti fatti di asticelle in legno, disposte orizzontalmente come le tende veneziane o le pareti delle case giapponesi, che lasciano lo sguardo libero di vagare tra le diverse sezioni.
«Nel 1972 a 25 anni - racconta Nomachi - scoprii il Sahara, un deserto aspro, sconosciuto, dimenticato. Mi chiedevo come la gente potesse viverci. Ho cominciato allora a interrogarmi sul valore della preghiera. Nei territori più impervi, infatti, per sopravvivere le persone si affidano a Dio e così ho iniziato questo percorso attraverso le religioni. Mi affascinano le persone nei luoghi sacri, quando pregano, perché in quel momento aprono il loro cuore, rivelano la loro espressione più autentica e sono totalmente sincere».
Le immagini di Nomachi colpiscono anche per l’assoluto rispetto, l’eguale considerazione e il pari coinvolgimento emotivo che il fotografo mostra verso ogni rituale religioso, un atteggiamento che forse gli deriva proprio dal suo essere giapponese. Nel Giappone moderno, infatti, shintoismo, buddismo e cristianesimo sono religioni che convivono pacificamente, spesso praticate addirittura dalle stesse persone che si recano al tempio shinto per festeggiare il nuovo anno, si sposano in chiesa e celebrano i funerali nel tempio buddista.
Nomachi afferma tuttavia che il sacro gli si è rivelato nel Sahara e in seguito a questa esperienza si è convertito all’Islam, cosa che tra l’altro gli ha permesso di scattare una serie di foto divenute subito celebri del pellegrinaggio alla Mecca. Quando ho fotografato La Mecca dall’alto di un minareto - ricorda - ho provato l’emozione più grande della mia vita. Ho perfino temuto di aver usurpato il posto di Dio, perché il punto di vista dall’alto appartiene a lui».

PANORAMI GRANDIOSI E AUSTERI
Oltre a fissare l’espressione dei volti nel momento della preghiera, anche nei paesaggi Nomachi riesce a cogliere e a restituire il senso dell’epifania del sacro. I suoi panorami grandiosi, silenziosi e austeri appaiono, infatti, riflettere e trasmettere valori spirituali e richiamano il senso dell’infinito.
All’inizio del 2013 Nomachi è tornato in Sudan mentre nel 2014 ha in programma di riprendere il lavoro sul sincretismo tra cristianesimo e culti preesistenti nelle Ande. E a chi gli domanda se l'Occidente non lo interessi ricorda di aver fatto un servizio in Vaticano per il Giubileo del 2000. Quale insegnamento trarre allora da questo viaggio attraverso le religioni? «E’ comune a tutti gli uomini chiedersi chi siamo e dove andiamo dopo la morte. Sarei felice - conclude - se le mie fotografie potessero trasmettere ai visitatori della mostra quella stessa serenità, quel senso di calma e di pace spirituale che hanno le persone in preghiera».
Flavia Matitti

(L’Unità 7 gennaio)