Recentemente,
a un interessante seminario
sull’Africa, ho conosciuto Elisa
Kidané, eritrea, poetessa, giornalista, scrittrice,
suora comboniana. Elisa era fra i relatori e
il suo intervento sul ruolo delle donne africane
è stato molto applaudito. Al termine mi
sono avvicinato per presentarmi e lei mi ha
lusingato dicendomi che legge i miei articoli e
che si vede che sono «uno che ama l’Africa».
Queste parole mi avrebbero sicuramente conquistato,
non la cosa non fosse già accaduta
poco prima, sentendola parlare.
Non saprei dire che cosa uno si
aspetti quando si accinge ad ascoltare il discorso
di una religiosa sulla questione femminile,
fatto sta che suor Elisa mi ha travolto. La sua
foga era straordinaria, e irresistibile l’impeto
con cui invocava una riforma per le donne nella
Chiesa cattolica. «Siamo tante, siamo più
della metà e la Chiesa non lo sa» ha esclamato
parafrasando un vecchio slogan femminista.
Ha ironizzato sull’uso del termine «suorina»
(«se lo sentite potete star certi che ci si riferisce
a un’africana») e sul ruolo riservato alle religiose
(«abbiamo scelto di non passare la vita in
cucina eppure è lì che ci vogliono far tornare»).
Ha invitato papa Francesco ad accelerare il
cambiamento per la presenza femminile nella
Chiesa. Insomma un mite, sorridente e dolcissimo
ciclone. Suor Elisa è anche spiritosa.
Quando un’altra oratrice, la camerunense Geneviève
Makaping, ha ricordato lo sciopero del
sesso promosso dalla premio Nobel per la Pace
liberiana Leymah Gbowee per porre fine alla
guerra civile, lei ha commentato: «Beh, questa
è un’arma che noi religiose non possiamo usare
». È proprio vero, come dicevano gli antichi,
che dall’Africa viene sempre qualcosa di nuovo.
Per me suor Elisa è nuovissima.
Pietro Veronese
(il Venerdì di Repubblica del 27.12.2013)