Assai meno illustre del celebre pendolo di Foucault e, che io sappia, mai assurto agli onori della narrativa, il pendolo di Charpy è un dispositivo impiegato nelle prove di resistenza dei materiali da costruzione, in particolare dei metalli destinati a costituire parti meccaniche sotto sforzo. Grazie a questo strumento è possibile risalire con precisione a quella caratteristica di tenacità del materiale dalla quale dipende la resistenza agli urti e che, tecnicamente, è definita «resilienza».
Che tempra! Un aspetto affascinante del linguaggio è costituito dalla facilità con la quale i termini vengono presi in prestito da un contesto a un altro, in genere arricchendosi di portata semantica e a volte correndo qualche rischio di perdere di vista il significato originario. Chi è stato «forgiato» con nervi «d'acciaio», gode di una salute «di ferro» e ha un carattere ben «temprato», è descritto ricorrendo a termini che evocano la consistenza e l’incorruttibilità propria di certa materia inanimata, esorbitanti dai limiti propri dell’essere umano. E ancora: una persona molto generosa avrà un cuore «d’oro» e un individuo sprezzante e svergognato una faccia «di bronzo». Ben lungi dal giocare con le parole troviamo, nell’ampliamento di significati, una delle ricchezze derivabili dall’interdisciplinarietà: è indubbia l’efficacia immaginifica di tali trasposizioni, non a caso il testo biblico ne è una miniera (!), ricco qual è di metafore e similitudini, e anche Lutero descrive la potenza salvifica di Dio come «una forte rocca». D’altra parte è scritto che i monti esultano e le stelle del mattino cantano...
«Chi si confida nel Signore... non potrà mai confuso andar». Con queste parole inizia il famoso inno numero 100 della vecchia edizione dell’Innario cristiano; lo imparai nei primi anni di scuola domenicale, melodia facilmente cantabile anche per i bambini (da un corale di Mendelssohn!). Ma qualche anno dopo, benché in cuor mio serbassi i saggi consigli dell’inno 100, cominciai ad andare confuso proprio a causa di questo testo, precisamente dell’ultima frase che afferma oscuramente: «Per i diletti del Signor la prova è segno del Suo amor!». La frase iniziale era consolatoria: era una buona notizia sapere che la fede in Dio e una risorsa contro le inevitabili avversità: accettabile anche il proponimento, all’inizio della seconda strofa, di saper fare fronte alle traversie dell’esistenza; ma convincermi che all’origine dei nostri guai si potesse scorgere l’amore di Dio... francamente era troppo!
Individui e comunità. Nel riconsiderare l’itinerario del termine resilienza e ripensando quindi alla sua derivazione, l'uso di questa parola indicherebbe, a rigore, non tanto la capacità di reagire positivamente a una situazione di disagio e di sofferenza accumulata nel tempo ma piuttosto a quella provocata dagli «urti» della vita, una sciagura inaspettata, un’aggressione improvvisa, l’evento traumatico che ci coglie come un fulmine a ciel sereno.
La differenza non è sottile: una condizione negativa che, per quanto gravosa, può però rientrare nelle nostre capacità di assimilazione, lascia aperta la possibilità di maturare tutte quelle risorse, tipiche degli esseri sociali quali siamo: la speranza innanzitutto, con la quale possiamo credere che qualcosa potrà cambiare; il raziocinio, per prende re coscienza di quel che si potrà fare; il coraggio di poter costruire rapporti e comunicare ad altri la nostra situazione; e tutto questo sarà amplificato e arricchito dal senso di appartenenza a una comunità, che ci consente di mettere in comune energie, esperienze, sensazioni, progetti e problemi, ovvero i fardelli pesanti e la forza per portarli o, se possibile, scrollarseli di dosso. Viceversa l’urto improvviso ci coglie impreparati, ci lascia storditi e disarmati, soli con il nostro dolore; una condizione che ci inibisce a varcare il nostro stesso confine e rischia di esaurirsi con noi. Ognuno può pregare per invocare l’aiuto di Dio, ma sapere che la stessa preghiera è sulla bocca e nel cuore di tutta una comunità costituisce di per sé un ulteriore conforto. La possibilità di essere resilienti presuppone allora preparazione, volontà e un minimo di terreno intorno su cui seminare qualcosa. Ma oggi, tra i segnali che scorgiamo, si prefigura un orizzonte che appare spesso ostile ai progetti di crescita collettiva: una rinuncia in nome di un libero ma crudele dispiegarsi di forze egocentrate e contrapposte, una spregiudicata lotta di individui contro individui, di squilibri economici contro equilibri naturali, in un contesto di svalutazione di rapporti e conseguente polverizzazione delle esperienze, sempre meno capaci di fare causa comune. Il rischio è che in questa condizione di frantumazione dei rapporti umani difficilmente saremo in grado di trarre vantaggio dalle esperienze negative... e più probabilmente le avversità rischieranno di assumere le stesse conseguenze di urti violenti e imprevedibili, sterili di possibili effetti positivi. Saranno quindi ben attese parole di fede, speranza e amore destinate a ricercare e ritrovare la pienezza della comunità umana prima ancora che sia necessario ricorrervi per rincuorare e risollevare singoli destini individuali. Riusciremo a uscire migliori dalle esperienze negative solo se non saremo già isolati, sminuiti e avviliti prima ancora di doverle affrontare.
Le prove, nel linguaggio dell’inno 100, potranno anche essere viste come una benedizione a condizione che ci sia dato di imparare a reinventare l'avvenire, di uscirne con nuova consapevolezza sulla nostra fede, sui nostri limiti e sulle nostre possibilità, e che questa consapevolezza non si esaurisca con noi ma costituisca una testimonianza per altri; ovvero se, voltandoci indietro, potremo poi raccontare ad altri che quegli eventi che ci hanno sconvolto l’orizzonte ci hanno costretto a cercare altre strade e l’aver cambiato strada ci ha portati più lontano. Noi oggi siamo ancora debitori del racconto di quell’avventuroso cammino di quarant'anni nel deserto, e poi di tanti altri che via via affrontarono i secoli difficili di questo tempo, affinché ancora oggi potessimo ascoltare il racconto di Chi, con la sua prova, continua a dare senso e speranza al nostro camminare.
Max Cambellotti
(Riforma 28 febbraio)
Che tempra! Un aspetto affascinante del linguaggio è costituito dalla facilità con la quale i termini vengono presi in prestito da un contesto a un altro, in genere arricchendosi di portata semantica e a volte correndo qualche rischio di perdere di vista il significato originario. Chi è stato «forgiato» con nervi «d'acciaio», gode di una salute «di ferro» e ha un carattere ben «temprato», è descritto ricorrendo a termini che evocano la consistenza e l’incorruttibilità propria di certa materia inanimata, esorbitanti dai limiti propri dell’essere umano. E ancora: una persona molto generosa avrà un cuore «d’oro» e un individuo sprezzante e svergognato una faccia «di bronzo». Ben lungi dal giocare con le parole troviamo, nell’ampliamento di significati, una delle ricchezze derivabili dall’interdisciplinarietà: è indubbia l’efficacia immaginifica di tali trasposizioni, non a caso il testo biblico ne è una miniera (!), ricco qual è di metafore e similitudini, e anche Lutero descrive la potenza salvifica di Dio come «una forte rocca». D’altra parte è scritto che i monti esultano e le stelle del mattino cantano...
«Chi si confida nel Signore... non potrà mai confuso andar». Con queste parole inizia il famoso inno numero 100 della vecchia edizione dell’Innario cristiano; lo imparai nei primi anni di scuola domenicale, melodia facilmente cantabile anche per i bambini (da un corale di Mendelssohn!). Ma qualche anno dopo, benché in cuor mio serbassi i saggi consigli dell’inno 100, cominciai ad andare confuso proprio a causa di questo testo, precisamente dell’ultima frase che afferma oscuramente: «Per i diletti del Signor la prova è segno del Suo amor!». La frase iniziale era consolatoria: era una buona notizia sapere che la fede in Dio e una risorsa contro le inevitabili avversità: accettabile anche il proponimento, all’inizio della seconda strofa, di saper fare fronte alle traversie dell’esistenza; ma convincermi che all’origine dei nostri guai si potesse scorgere l’amore di Dio... francamente era troppo!
Individui e comunità. Nel riconsiderare l’itinerario del termine resilienza e ripensando quindi alla sua derivazione, l'uso di questa parola indicherebbe, a rigore, non tanto la capacità di reagire positivamente a una situazione di disagio e di sofferenza accumulata nel tempo ma piuttosto a quella provocata dagli «urti» della vita, una sciagura inaspettata, un’aggressione improvvisa, l’evento traumatico che ci coglie come un fulmine a ciel sereno.
La differenza non è sottile: una condizione negativa che, per quanto gravosa, può però rientrare nelle nostre capacità di assimilazione, lascia aperta la possibilità di maturare tutte quelle risorse, tipiche degli esseri sociali quali siamo: la speranza innanzitutto, con la quale possiamo credere che qualcosa potrà cambiare; il raziocinio, per prende re coscienza di quel che si potrà fare; il coraggio di poter costruire rapporti e comunicare ad altri la nostra situazione; e tutto questo sarà amplificato e arricchito dal senso di appartenenza a una comunità, che ci consente di mettere in comune energie, esperienze, sensazioni, progetti e problemi, ovvero i fardelli pesanti e la forza per portarli o, se possibile, scrollarseli di dosso. Viceversa l’urto improvviso ci coglie impreparati, ci lascia storditi e disarmati, soli con il nostro dolore; una condizione che ci inibisce a varcare il nostro stesso confine e rischia di esaurirsi con noi. Ognuno può pregare per invocare l’aiuto di Dio, ma sapere che la stessa preghiera è sulla bocca e nel cuore di tutta una comunità costituisce di per sé un ulteriore conforto. La possibilità di essere resilienti presuppone allora preparazione, volontà e un minimo di terreno intorno su cui seminare qualcosa. Ma oggi, tra i segnali che scorgiamo, si prefigura un orizzonte che appare spesso ostile ai progetti di crescita collettiva: una rinuncia in nome di un libero ma crudele dispiegarsi di forze egocentrate e contrapposte, una spregiudicata lotta di individui contro individui, di squilibri economici contro equilibri naturali, in un contesto di svalutazione di rapporti e conseguente polverizzazione delle esperienze, sempre meno capaci di fare causa comune. Il rischio è che in questa condizione di frantumazione dei rapporti umani difficilmente saremo in grado di trarre vantaggio dalle esperienze negative... e più probabilmente le avversità rischieranno di assumere le stesse conseguenze di urti violenti e imprevedibili, sterili di possibili effetti positivi. Saranno quindi ben attese parole di fede, speranza e amore destinate a ricercare e ritrovare la pienezza della comunità umana prima ancora che sia necessario ricorrervi per rincuorare e risollevare singoli destini individuali. Riusciremo a uscire migliori dalle esperienze negative solo se non saremo già isolati, sminuiti e avviliti prima ancora di doverle affrontare.
Le prove, nel linguaggio dell’inno 100, potranno anche essere viste come una benedizione a condizione che ci sia dato di imparare a reinventare l'avvenire, di uscirne con nuova consapevolezza sulla nostra fede, sui nostri limiti e sulle nostre possibilità, e che questa consapevolezza non si esaurisca con noi ma costituisca una testimonianza per altri; ovvero se, voltandoci indietro, potremo poi raccontare ad altri che quegli eventi che ci hanno sconvolto l’orizzonte ci hanno costretto a cercare altre strade e l’aver cambiato strada ci ha portati più lontano. Noi oggi siamo ancora debitori del racconto di quell’avventuroso cammino di quarant'anni nel deserto, e poi di tanti altri che via via affrontarono i secoli difficili di questo tempo, affinché ancora oggi potessimo ascoltare il racconto di Chi, con la sua prova, continua a dare senso e speranza al nostro camminare.
Max Cambellotti
(Riforma 28 febbraio)