venerdì 28 marzo 2014

COMMENTO ALLA LETTURA BIBLICA

                        L’INCONTRO CHE APRE GLI OCCHI

 

Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Và a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli occhi?». Egli rispose: «Quell'uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Và a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov'è questo tale?». Rispose: «Non lo so». Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c'era dissenso tra di loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori risposero: «Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l'età, parlerà lui di se stesso». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l'età, chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l'uomo che era stato cieco e gli dissero: «Dà gloria a Dio! Noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore». Quegli rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero di nuovo: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l'ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Allora lo insultarono e gli dissero: «Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell'uomo: «Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non s'è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l'avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell'uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Tu l'hai visto: colui che parla con te è proprio lui». Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi. Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane». (Giovanni 9, 1-41)

Uno dei guai più ricorrenti , quando leggiamo brani evangelici così lunghi, consiste nell’accelerare per giungere presto alla conclusione di un racconto così noto.

In questa pericolosa esperienza della lettura veloce, il rischio è grande perché non avviene il corpo a corpo con la Scrittura che esige lentezza, capacità di ascoltare e apertura ai “sensi nuovi” che ogni rilettura può regalarci.

Qualche annotazione introduttiva può aiutarci ad “ascoltare” e “gustare” in modo nuovo questa pagina che nasce dall’interno del cammino di una comunità che voleva vivere ed annunciare  quanto l’incontro con il messaggio di Gesù avesse cambiato in profondità la sua vita.

Un brano che ha una storia

 


Questo brano giovanneo, redatto con ogni probabilità tra la fine del 1° secolo e l’inizio del 2°, ha alle spalle una storia ed una esperienza.

Ormai abbiamo imparato dagli studiosi della Bibbia che i lunghi racconti del Vangelo di Giovanni sono costruzioni teologiche e non resoconti di cronaca, anche se certamente Gesù incontrò e in qualche modo si prese cura di alcuni ciechi che erano allora tra le persone più sofferenti ed emarginate. Qui tuttavia la cecità viene assunta come metafora di un atteggiamento interiore e non come realtà corporale.

La comunità di Giovanni pensava che aver incontrato Gesù, la sua persona e il suo messaggio, fosse stato per quegli uomini e quelle donne della Palestina un passaggio radicale, l’inizio di una vita nuova.

Questa memoria, che essi avevano ricevuto dalle precedenti generazioni di discepoli del nazareno, si espresse nella celebrazione comunitaria del battesimo. Nella comunità giovannea il battesimo degli adulti era la “illuminatio” cioè un passaggio dalla cecità alla vista, la guarigione dalla cecità, l’apertura degli occhi “interiori”, resi capaci di vedere la vita in modo nuovo.

Come al cieco era stato richiesto di andarsi a lavare nella piscina di Siloe, così per ricevere il battesimo era stato richiesto un cammino di impegno. Il battesimo, così preparato, non aveva nulla di magico, ma apriva davanti al fratello e alla sorella un orizzonte nuovo.

Collocarsi sulla strada di Gesù significava passare dalle tenebre alla luce. Era un cambiare vita.

Mi viene subito in mente che spesso i nostri battesimi (e un po’ tutti i sacramenti) non segnano nessun “passaggio”, non aprono nessuna nuova prospettiva, quando non finiscono in una mangiata in qualche ristorante tra i flash di tante macchine fotografiche o di cellulari ultramoderni.
Giovedì scorso ho partecipato nella comunità cristiana di base di Via Città di Gap 13 a Pinerolo al gruppo biblico giovanile. Ho percepito con grande emozione la consapevolezza di questi giovani dai 20 ai 30 anni che incontrare Gesù significa operare una svolta e progettare un cammino di fiducia e di solidarietà. Non mi stanco mai di ripetere  in questo bel gruppo che la compagnia di Dio, del Dio vicino, sarà la sorgente le cui acque non verranno mai meno, nonostante tutte le incertezze e le difficoltà di questo viaggio avventuroso.


Chi vede fa paura

Ma il vangelo, attraverso questo racconto così ricco di particolari significativi e di risonanze, compie un ulteriore passo di “svelamento” della realtà: quanto più una persona guarisce dalle sue cecità, tanto più diventa sospetta ai padroni del vapore, ai signori del sacro, agli “ufficiali” del tempio.

Il brano è addirittura divertente: ci si appiglia a tutto per negare l’evidenza, per far tacere chi ora vede, per squalificare un testimone. Quante manovre per far tacere il grido dei profeti, per spegnere le voci fuori dal coro, per manipolare la realtà. Recentemente, penso al vescovo Romero e a don Diana come a mille altri testimoni, si è elaborata una strategia sottile e seducente: si trasforma la loro vita, di umile ricerca e di solitudine istituzionale, in una fiction in cui si “costruisce l’eroe” e così

si ricupera il personaggio e si tradisce la storia. Il tutto per nascondere il vero cammino di chi faticosamente apre gli occhi e il cuore.

E con tristezza non possiamo non constatare che una delle perfidie della nostra istituzione ecclesiastica, una delle più pesanti responsabilità lungo i secoli è stato questo occultamento della verità, questo tentativo di mantenere le persone nella cecità, questo strangolamento delle voci libere, questa repressione della libertà.

Sono i custodi della Legge, i “sacerdoti”, i detentori della verità che hanno paura della luce. Quanti occhi vengono impediti e quante voci soffocate in nome di Dio. Questo “in nome di Dio” è doppiamente grave. Speriamo che papa Francesco si accorga che l’aria è diventata irrespirabile e bisogna aprire le finestre per non morire di asfissia ecclesiastica.

 


“Noi vediamo”

In realtà se ci fermiamo a questa denuncia, per quanto vera e motivata, rischiamo di rimanere a metà strada nella lettura di questa densa e provocatoria pagina evangelica. Potremo farne una lettura comoda e accomodante e perciò incapace di toccare il nostro cuore.

La ragione è evidente: posso essere io, possiamo essere noi nel rischio di collocarci dalla parte di chi presume di sapere, di vedere, di possedere la verità. “Noi siamo discepoli di Mosè … Noi sappiamo (vv 24, 29, 31)”

Nessuno di noi è al riparo da questa tentazione che spesso trova molto spazio proprio tra noi credenti. La presunzione di avere Dio in tasca può serpeggiare anche tra di noi.

Tutti possiamo essere abbagliati da un eccesso di certezze e così, armati di sicurezze, non sappiamo più vedere i segni di Dio che vanno oltre le nostre coordinate mentali. Abbiamo sempre bisogno anche degli occhi degli altri/e.

La prigione dei dogmi o del perbenismo è tra le più ricorrenti.

La comunità di Giovanni e il redattore del Vangelo mettono sulla bocca di Gesù una loro esperienza, una ripetuta constatazione: “Io sono venuto in questo mondo per una discriminazione, affinché quelli che non vedono ci vedano e quelli che vedono diventino ciechi”.

Per vedere bisogna partire dal riconoscimento della propria cecità. E tutti ne abbiamo un po’. Per giunta è più facile vedere quella degli altri e così dispensarci dal prendere atto della nostra. La testimonianza biblica, che sollecita il coraggio e la denuncia, non ci dispensa mai dall’impegno per la nostra personale conversione.

Intanto in questi giorni, mentre la propaganda di chi si appella ai valori cristiani per difendere i propri interessi, getta sabbia negli occhi della gente, riponiamo nel cuore l’inno di speranza del profeta Isaia.

Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto,
perché scaturiranno acque nel deserto,
scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una palude,
il suolo riarso si muterà in sorgenti d'acqua.
I luoghi dove si sdraiavano gli sciacalli
diventeranno canneti e giuncaie (Isaia 35, 5 – 7).

 

Dunque….

 

Dunque, l’incontro con il messaggio amoroso di Dio, testimoniato da Gesù, può “aprire gli occhi dei ciechi”, può fare intravedere percorsi nuovi.

E’ vero: viviamo nel chiasso  e nella confusione, tra voci potenti che quasi impongono la loro verità. Saremmo tentati di dire che la umile parola  della Scrittura non regge al confronto. Ma Dio sa raggiungere i cuori anche come un vento leggero, un soffio impercettibile.

Non possiamo rassegnarci alle ingiustizie di questo mondo, ma possiamo aprire gli occhi e scommettere su un “paesaggio” nuovo, se davvero crediamo che l’incontro con Gesù può cambiare la nostra vita.