lunedì 8 settembre 2014

GUANTANAMO

Corrotto dal tempo, dalla politica e dal clima tropicale, tra pavimenti di truciolato che sprofondano nella sabbia e ratti che rosicchiano le pareti, Guantanamo resiste ancora, monumento alle mancate promesse di Barack Obama e al fallimento morale della "Guerra al Terrore" di George W. Bush. Settantaquattro uomini vi restano detenuti, senza futuro, vestiti in quelle tute arancione che oggi sono divenute la bandiera simbolica degli orrori perpetrati dai macellai del Califfato dell'Is. Guantanamo vive e lotta per loro.
Dodici anni di inettitudine e palleggio di responsabilità burocratiche, hanno lasciato il "Gulag Tropicale", come fu definito da Amnesty International, in uno stato di decomposizione materiale che rappresenta perfettamente il disastro di una strategia che ha prodotto un nemico ancora più feroce, e molto più organizzato, di Al Qaeda. Gli inviati del New York Times lo hanno visitato e hanno trovato «una colonia penale fatiscente che costa 443 milioni di dollari all'anno ai contribuenti», senza chiusura in vista.
Eppure «chiudere Guantanamo», una sconfitta morale e d'immagine che, insieme con le foto di Abu Grahib, gli interrogatori «avanzati» e la consegna di prigionieri ad altre nazioni per torture segrete, è costata all'America più di una battaglia perduta, era stata una delle promesse fatte da Barack Obama nel 2008. Un impegno preso senza fare i conti con l'oste, in questo caso quel Parlamento americano e quei Governatori degli Stati che respinsero, e ancora respingono, l'idea di accogliere sul territorio degli Stati Uniti e nei penitenziari di massima sicurezza i resti di quei 779 «combattenti nemici» che, dall'apertura nel gennaio del 2002, vi sono passati.
Vittorio Zucconi

(Repubblica 2 settembre)