Mosca - L’ultimo Presidente dell’Unione Sovietica cerca ancora le agende, le fotografie, gli effetti personali che teneva al Cremlino: «Mi dissero che li avevano portati via su un carrellino di servizio. C’era fretta di sgomberare la stanza dalle mie cose, Eltsin era già dentro al mio ufficio, che brindava con whisky di malto». Era la sera del 26 dicembre 1991, Mikhail Gorbaciov aveva appena firmato le dimissioni: la dissoluzione formale dell’Urss era questione di ore. Ma quello che ancora Gorbaciov non riesce a digerire è la fretta poco gentile del suo predecessore.
Lo scrive adesso, 23 anni dopo, in un libro presentato a Mosca e intitolato "Dopo il Cremlino".
Lo scrive adesso, 23 anni dopo, in un libro presentato a Mosca e intitolato "Dopo il Cremlino".
Il racconto dell’ultimo giorno comincia dalla tarda mattinata.
«Avevo appena firmato le mie dimissioni. Avevo tempo, credevo, fino al 30 del mese.
Entrai in ufficio come fosse un giorno qualunque. Guardai i giornali, ma soprattutto i telegrammi dei cittadini. Molti erano affettuosi ma già si era scatenata la macchina delle calunnie. Qualcuno farneticava di “ricchi conti nelle banche svizzere”. Ricordo che mi dissi: “Questa gente non ha capito che è arrivata a un passo dal perdere il proprio Paese”». È l’inizio di una campagna che non creerà una bella immagine di Gorbaciov. E lo sfratto accelerato è solo l’inizio: «Mentre stavo scrivendo qualche dedica, mi interruppe una telefonata di mia moglie Raissa. Era tristissima, l’avevano chiamata dall’amministrazione per chiederle di sgomberare l’appartamento e che non ci avrebbero aiutato per il trasloco». «Subito dopo mi arrivò un biglietto che diceva che io e mia moglie diventavamo proprietari di un appartamento di 65 metri quadri in via Kossighin». Poi nel pomeriggio l’ultima spinta: «Ero in macchina per tornare in ufficio. Mi telefonarono per dirmi che non avrei potuto entrare. Che dentro Eltsin aveva fatto stappare un paio di bottiglie insieme a quelli del suo staff. Compresi quelli che due anni dopo avrebbero tentato di prendere la Casa Bianca e che lui fece prendere a cannonate.
Sapevo che non vedeva l’ora, sapevo che il mio ufficio, nel suo giro, lo chiamavano “la vetta da conquistare”. Ma mi sarei aspetto almeno un po’ più di tatto». Chiese al funzionario al telefono: «E la mia roba?». Gli fu risposto che era stata portata via. «Da allora non ho mai più messo piede in quella stanza».
(Repubblica 20 novembre)
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