domenica 7 dicembre 2014

“Se sei di colore sai che il prossimo potresti essere tu”

«Molto è cambiato in America. E molto è rimasto uguale. Oggi gli afroamericani hanno più opportunità, soprattutto economiche. Ma non è cambiata la percezione razziale verso chi è nero e povero. Anzi, non devi nemmeno essere povero. Basta essere un giovane nero per essere percepito come pericolo». Percival Everett, 58 anni, uno dei più stimati autori afroamericani, il romanziere della tragicomica odissea di Non sono Sidney Poitier (Nutrimenti), lo sa bene. «Questa vicenda mi colpisce come cittadino. Penso alle sfide che i giovani neri hanno oggi davanti e sono angosciato per loro. Rivedo me stesso trent'anni fa: quando pensavo che le cose sarebbero andate in altro modo».
E invece?
«La percezione razziale è la cornice di una divisione che non si sana e si fa sempre più ampia. I giovani afroamericani in America vengono trattati come i palestinesi in Israele, come gli zingari in Europa».
Ma la segregazione non era finita negli anni Sessanta?
«Invece, anche ora, sai che il prossimo incidente puoi essere tu. Cammini con a fianco il riflesso continuo delle luci blu della polizia. Le storie di neri fermati senza una ragione si raccontano quotidianamente: nessuno ci fa più caso».
Com'è possibile in una nazione che per la prima volta ha un presidente afroamericano, un ministro della giustizia afroamericano, dove è nero anche il direttore del New York Times?
«Dobbiamo probabilmente essere grati agli otto anni precedenti di pessima gestione del Paese... Barack Obama è uno degli uomini più intelligenti che sia mai arrivato al potere. Ma l'attitudine razziale resta. E mi chiedo: com'è possibile che il governo non abbia indagato in modo più aggressivo su Ferguson?».
Ci sono manifestazioni in tutta l'America. Uno degli slogan che gridano alla polizia è "You serve us": siete voi al nostro servizio, siete voi che dovete proteggerci...
«E la polizia lo fa. Il problema sono i singoli poliziotti, troppo inesperti per capire come agire, per capire che il ragazzo nero che hanno davanti non è una minaccia. Molti poliziotti sono di colore, molti sono persone a cui hanno sparato addosso più di quanto abbiano mai sparato loro stessi. Loro sì che sono al nostro servizio. Il problema è anche la cattiva pianificazione quando metti tanti poliziotti bianchi in una zona nera, è gente che non conosce l'ambiente, non capisce cosa succede».
Quanto è profonda la distanza?
«I giovani bianchi si appropriano di simboli e stili della cultura nera, vogliono vestire come i neri, fare il rap. Ma allo stesso tempo sono spaventati da quella cultura. Alla fine della storia non c'è nessun bianco che pensa "vorrei essere nero"».
E adesso questa decisione del Grand Jury...
«Vergognosa».
Cosa la fa arrabbiare?
«Il fatto che non ci sorprende. Ce lo aspettavamo. Ancora una volta».
La rabbia di molti però si è trasformata in violenza.
«Nessuno ama la violenza ma è una reazione comprensibile in quelle condizioni. E' frutto di rabbia, ma anche paura. Se fossi un ragazzino nero sarei terrorizzato».
Le proteste porteranno a qualcosa?
«Le rivolte si placheranno: fino a quando non succederà di nuovo. Perché questa indignazione non nasce, come si dice, con il caso di Trevyon Martin. Arriva dopo decine di altri. E' un problema che 1'America non ha mai risolto».
Che fare?
«Innanzi tutto riconoscere che il problema razziale esiste ancora. Purtroppo è da qui che bisogna ripartire. Dall'inizio».
Anna Lombardi

(Repubblica 27 novembre)