venerdì 29 maggio 2015

Sacra Sindone l'ultima inchiesta sul volto di Dio

Mentre scriviamo, è in atto l'ostensione della Sindone a Torino: si è aperta il 19 aprile e chiuderà i battenti il 24 giugno, onomastico di San Giovanni Bosco. Si attende la visita di papa Francesco. Nella sua omelia del 4 maggio, l'arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia ha parlato della sua commozione nel celebrare la Messa davanti "al sacro Telo". All'appuntamento ci si può preparare anche leggendo i più recenti libri di storia dedicati alla Sindone. Per esempio, lo svelto e accattivante saggio di Franco Cardini e Marina Montesano che promette di parlare di una Sindone di Torino oltre il pregiudizio (Medusa).
La proposta dei due autori è quella di pacificare le parti in conflitto sulla questione dell'autenticità adottando uno sguardo storico superiore, "a trecentosessanta gradi". La Sindone, scrivono, è stata «oggetto di culto negli ultimi settecento anni o quasi»: e questo per la fede basta, la fede non ha bisogno di prove. Quanto all'aspetto più propriamente storico delle origini autentiche o spurie del "sacro Telo", qui la ricerca appare ardua se non addirittura priva di soluzione ai due autori. Stiamo al quia, dunque.
Quasi contemporaneamente è uscito il libro di Andrea Nicolotti, Sindone. Storia e leggende di una reliquia controversa, Einaudi. Siamo davanti in questo caso a una ricerca che ha occupato anni di assiduo lavoro. Ogni tanto giungevano notizie di dove stava scavando questo giovane senz'arte né parte o meglio con grande arte ma nessuna o poca parte nell'Università. Il risultato è imponente. Qui si prende di petto davvero l'intera storia della Sindone, dai cenni trascurabili che se ne incontrano nei Vangeli all'avvio trecentesco della vicenda di quella oggi a Torino e al percorso che l'ha portata trionfalmente nella capitale dei Savoia e da lì agli onori odierni. Nicolotti parte dalla scena di quel venerdì intorno all'anno 30 quando a Gerusalemme un uomo fu condannato a morte e messo in croce, si ferma sull'atto di Giuseppe di Arimatea che lo avvolge pietosamente nella "sindòn" prima di seppellirlo, insegue gli scarsi cenni dedicati a quei tessuti sepolcrali dalla letteratura cristiana antica – in cielo con Cristo secondo il Vangelo di Gamaliele, o conservati secondo il Vangelo di Nicodemo – e si avventura poi nelle descrizioni di reliquie che si infittiscono col moltiplicarsi dei pellegrinaggi in Terrasanta. Con l'età carolingia la svolta: nasce il grande commercio delle reliquie: c'è in loro un potere salvifico destinato a riverberarsi su chi ne è il possessore, a partire dallo stesso Carlo Magno. Il potere ha bisogno della legittimazione del sacro: e questo, per la difettività della natura umana, scatena i "sacri furti" e dà vita a un commercio diffuso dove quando la merce autentica manca la si fabbrica. Ecco che appaiono non una ma molte sindoni e molti sudari funebri: da Compiègne, ad Aquisgrana, ad Arles, a Cadouin, a Magonza e naturalmente a Roma, in San Giovanni in Laterano. Diversi di questi sono ancora conservati. Ad Aquisgrana c'è una sindone, con un sudario e il telo con cui Gesù asciugò i piedi ai discepoli. Quella di Cadouin esiste ancora con le sue macchie di sangue, era stata dichiarata autentica da un vescovo nel '600 e aveva fatto molti miracoli ma poi si è scoperta l'origine egiziana e islamica del telo.
Quella di Roma non sfuggì ai sarcasmi di Calvino. Invece la sindone oggi a Torino ebbe una contestazione ben più sollecita e autorevole, non di un "eretico" ma di un vescovo. Accadde nel 1389-90: fu allora che Pierre d'Arcis, vescovo di Troyes si appellò al papa per far cessare un abuso introdotto nella collegiata di Lirey alcuni decenni prima. Un canonico, nel 1355, si era procurato un telo dove un pittore aveva dipinto l'immagine del corpo di Cristo. Un pittore sconosciuto: ma come non ricordare l'acuta osservazione di Cardini e Montesano sull'iconografia del volto della Sindone ("un gisant tardogotico")? Vedere il volto di Dio era pur diventato allora il banco di prova della grande pittura del Medioevo cristiano prima di trasferirsi all'epoca del trionfo dell'immagine - la nostra. Torniamo a Lirey: qui si era cominciato a esibire il telo ai fedeli, lasciando loro credere che si trattasse dell'originario e autentico lino sepolcrale di Gesù. Ora il vescovo si sentiva tenuto dai canoni a compiere il suo dovere: chiedeva che si ponesse fine a quella devozione tributata a un pezzo di stoffa. Secondo lui il clero che si rendeva responsabile di quell'abuso favoriva l'idolatria, procedeva «a disprezzo della Chiesa, scandalo del popolo e pericolo delle anime». La denunzia non impedì che lo scandalo continuasse. Ma da questo momento in poi una fitta documentazione doveva accompagnare le successive vicende della sindone: vicende che Andrea Nicolotti ha ricostruito con una straordinaria acribia e competenza e che ci portano fino ai nostri giorni. Perché qui siamo davanti non a quelle storie di false reliquie e di falsi miracoli inaugurate dal capolavoro di Marc Bloch sui "re taumaturghi" e che insistono sul lungo Medioevo, ma davanti a un falso che trionfa col regno dei Savoia, li accompagna sul trono d'Italia fino al termine inglorioso del loro regno e si trasferisce poi nelle mani della curia di Torino e del Vaticano per la felicità di un popolo di feticisti. Un falso moderno, che sopravvive indisturbato nonostante che i risultati della prova scientifica del radiocarbonio, effettuata nel 1988, abbiano datato il tessuto all'arco di anni compresi tra il 1260 e il 1380: un'epoca lontanissima dall'anno della sepoltura di Cristo a Gerusalemme ma tale da coincidere perfettamente con la denunzia del vescovo di Troyes.
Un grande libro, una prova maggiore del valore della ricerca storica. Chissà se i visitatori dell'ostensione lo troveranno tra le pubblicazioni in vendita o se avrà modo di sfogliarlo papa Francesco prima di parlare della Sindone in giugno. Sarà un'occasione importante per scegliere tra l'invito di papa Wojtyla a non avere paura della verità storica e scientifica e il solito cedimento opportunistico alle torbide correnti del turismo devozionale di massa.
Adriano Prosperi

(la Repubblica 21 maggio)