giovedì 25 giugno 2015

Capitasse mai che Renzi e il suo stato maggiore (primo tra tutti il reggiano Delrio) volessero fermarsi un attimo a riflettere, la riflessione potrebbe/dovrebbe partire da un giorno preciso: il 23 novembre 2014. Elezioni regionali in Emilia Romagna: affluenza alle urne 37 per cento. Per dare un'idea dello sconquasso politico, storico, culturale, umano che quel dato fotografa, basti pensare che circa vent'anni prima, nel 1995, in quella regione aveva votato l'88 per cento degli aventi diritto, e Bersani era stato eletto presidente con il 53 per cento. Mettete a raffronto i due dati, 88 per cento contro 37 per cento, considerate che quella è la regione simbolo della sinistra italiana (la più innovativa, quella dei piani regolatori, degli asili nido, dei servizi sociali) e ditemi se il segretario del Pd fece bene o fece male a dichiarare "abbiamo vinto" e a liquidare come un trascurabile dettaglio l'epocale tracollo dei votanti in una terra nella quale la partecipazione alla vita politica era stata, per generazioni, appassionata e al tempo stesso capillare.
Che la politica si possa fare senza popolo è un'idea forse gradita da qualche lobby di tecnocrati. Ma Matteo Renzi, votato alle primarie da milioni di elettori di sinistra e di centrosinistra, se vuole fare il mestiere per il quale è stato scelto non può pensare una corbelleria del genere. Il populismo è una malattia della politica, non meno patologico è il suo contrario, che è l'autismo delle classi dirigenti.
Michele Serra

(la Repubblica 16 giugno)