Il cardinale Kasper: "Lecita l'obiezione di coscienza sulle leggi contro l'immigrazione"
Eminenza, lei invoca atteggiamento d'apertura: come giudica le tensioni europee per la sospensione della libera circolazione sancita dal trattato di Schengen e i toni accesi della campagna elettorale Usa sui temi dell'immigrazione?
"Le leggi statali vanno osservate, ma non sono l’ultimo criterio dell’essere cristiano. La misericordia va oltre. Lo Stato non può comandare la misericordia. In questo senso le leggi stabiliscono un livello minimo di regole di convivenza, la misericordia va oltre. E solo la misericordia dà un certo calore alla nostra società, senza di essa e senza compassione vivremmo in una società molto fredda".
Vuol dire che si può invocare un'obiezione di coscienza davanti alle leggi che impongono di respingere i migranti?
"Sì, esiste una questione di coscienza. Ci si deve chiedere se un uomo che non ha i documenti può essere rimesso in un Paese dove viene perseguitato. È chiaro che uno Stato ha il diritto di richiedere i documenti agli immigrati, ma c'è sempre spazio per la coscienza personale".
Cosa risponde a chi afferma che l'accoglienza mette a rischio la sicurezza dei Paesi?
"Non si può dire che tutti i migranti sono un rischio per la sicurezza e non si può nascondere che anche tra i cittadini del luogo ci sono pericoli potenziali. E allora si deve essere prudenti, ma anche aperti. Non si può fissare una priorità tra accoglienza e sicurezza: c’è un equilibrio che i governi devono trovare. Ma la sicurezza non può diventare un idolo. E si deve ricordare che è un pericolo anche non essere accoglienti, non essere misericordiosi".
In nome della sicurezza, dalla Francia è partito un appello per gli ebrei a non indossare la kippah per evitare di esporsi come bersagli. Lei cosa ne pensa?
"Capisco la prudenza ma si deve difendere un diritto fondamentale. Non può essere proibito mostrare che si appartiene ad una religione: si deve sempre rivendicare la libertà religiosa, è una questione di rispetto e tolleranza reciproca. Anche i cristiani si trovano in queste condizioni: in molti paesi islamici non possono indossare una croce. E perché? Noi ci dobbiamo impegnare a rispettare le tradizioni altrui, ma anche le nostre devono essere tutelate".
Ritiene che l'Europa stia subendo un contraccolpo nel processo di integrazione?
"Un tempo l'Europa era omogenea, ora dobbiamo imparare a convivere tra religioni diverse. Ma questo può essere un arricchimento, si può anche imparare dagli altri. E noi cristiani, che siamo diventati troppo timidi, possiamo ad esempio imparare dai musulmani il coraggio di professare pubblicamente la loro religione: questa è una sfida per noi".
A proposito di sfide: il Papa ha chiesto ad ogni parrocchia di ospitare almeno una famiglia di immigrati, ma un’inchiesta dell’Espresso ha denunciato le difficoltà di chi bussa ai conventi e i dati della Fondazione Migrantes della Cei rilevano che in Italia le realtà ecclesiali – non solo parrocchiali, ma anche comunità, conventi e santuari - ospitano in tutto 27mila persone. Non crede che la risposta sia stata troppo timida?
“Capisco che in alcuni casi ci siano problemi organizzativi, ma le parrocchie devono riuscire a ospitare almeno una famiglia: una soluzione si trova sempre. La gente a volte è un po’ riservata nei confronti dei forestieri ma io credo che conoscendo gli immigrati come persone, guardandoli in faccia, vedendo i bambini che soffrono, subentra la compassione e il muro si sbriciola. Forse dobbiamo ancora imparare la vera misericordia. C’è una regola d’oro: devo sempre domandarmi cosa vorrei se fossi io a trovarmi in una situazione di necessità. Questa regola è un'eredità di tutta l’umanità che arriva dal Vangelo. Noi cristiani dobbiamo essere pronti a testimoniarla”.