domenica 7 febbraio 2016

La necessità di un linguaggio rinnovato

Una direzione nuova sta colmando i discorsi e gli incontri che la Chiesa, in sintonia con papa Francesco, organizza e programma con lo scopo di giungere ad una teologia non più orientata alla pastorale, ma pastorale essa stessa.
Il progressivo allontanamento della gerarchia e della dottrina dal confronto intellettuale con il mondo ha fatto sì che la teologia venisse meno al suo compito. Essa si è scontrata con la società del XX secolo al punto da uscirne con le ossa rotte, cosicché una "teologia del riscatto" si impone da sé. Il problema non è semplice, specie in considerazione del fatto che la portata dello stesso supera abbondantemente i confini teologici e invoca necessariamente un confronto interdisciplinare. In gioco infatti non c'è solo la credibilità del discorso teologico, ma anche la qualità della sua relazione con il mondo.
Gli antichi avevano le idee più chiare delle nostre. Ciò spiega perfettamente la nascita del mito e il suo continuo uso nei testi sacri, il quale non è affatto un infantilismo o un tentativo puerile di spiegare la realtà, ma la modalità più diretta di saziarla in tutta la sua veste poliedrica. Il mito rende ragione alla filigrana del reale e permette all'essere umano di accostarsi alla vita con autentica riverenza. Si tratta di un paradigma che ci attraversa e ci supera, allorché ci appare nella sua astrattezza. Il mistero dell'essere non potrà mai essere soddisfatto dalle parole. Ecco perché era - e lo è anche oggi - saggio ricorrere al mito. L'assolutizzazione della realtà rimane perciò un errore grossolano, proprio di chi pensa in rapporto al dogmatismo e non lascia che la vita si sviluppi. Così la teologia, se vuole continuare ad essere scienza, non può tirarsi indietro di fronte al compito che la storia gli ha posto innanzi e che si traduce immediatamente in un "cambio di linguaggio".
Perciò le trattazioni teologiche devono lasciarsi trasportare da questa corrente vitale: si colmeranno di vita incontrando la brezza effervescente dell'esistenza. Tuttavia, a dispetto di ideali filantropici, alla concreta possibilità che le ragioni dell'essere umano possano trovare accoglienza presso le mura barcollanti della dottrina si preferisce spesso un linguaggio logoro e profondamente triste con cui avvolgere i discorsi teologici o i racconti evangelici.
Il linguaggio teologico deve assumere il sapore di una seria condivisione delle domande del mondo e non lasciarsi "stravolgere" da una terminologia riveduta e corretta alla luce di neologismi dal sapore teen. Per questo credo che il primo passo debba essere il recupero dell'interdisciplinarità nel dialogo. Occorre «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, 227). La teologia è chiamata ad esporsi subendo talvolta la confutazione ma mantenendo aperto il futuro.
Il nostro orizzonte culturale suscita energie nuove e da esso derivano le attuali frontiere di speranza e di rivoluzione. Tanto più la teologia si apre, deponendo le vesti della paura, tanto più si mette in ascolto dei segni dei tempi per rendersi portatrice di un messaggio profetico e attuale. Si pensi alla teologia della liberazione o alle prospettive ecologiche e della natura che anche il pensiero occidentale sta finalmente abbracciando. Il apporto che lo spirito del mondo può dare ai nostri trattati è quanto mai diretto ed esaltante: si aprono nuovi scenari, si inaugurano campi inediti, si consacra il bene dell'essere umano. Del resto, cos'è il mondo se non la "vita" di Dio? Non è forse la realtà il volto più immediato e tangibile del Dio-con-noi?
Antonio Ballarò, studente in Teologia

(Adista n. 3, 23 gennaio 2016)