sabato 28 maggio 2016

184 giuristi per il Sì: ecco la “bibbia” della campagna

«A quanti, come noi, sono giustamente affezionati alla Costituzione del '48 diciamo che, intervenendo solo sulla parte organizzativa e rispettando ogni virgola della parte prima, la riforma potrà perseguire meglio quei principi che sono ormai patrimonio comune di tutti gli italiani». Insomma: «Lungi dal tradire la Costituzione, si tratta di attuarla meglio raccogliendo le sfide di una competizione europea e globale».
Si chiude così il manifesto di 184 giuristi a favore della riforma costituzionale intitolato «Le ragioni del Sì» e voluto dal governo in risposta a quello di 56 colleghi schierati per il No. All'appello ha lavorato un pool di professori - Carlo Fusaro, Stefano Ceccanti, Beniamino Caravita, Cesare Pinelli, Marco Olivetti - sotto l'egida di Massimo Rubechi, consigliere giuridico del ministro Boschi - e sono stati contattati i docenti delle principali università italiane pubbliche e private, da Bolzano a Enna.
Tra le firme appaiono 107 docenti ordinari (tra cui alcuni emeriti), 45 associati e 23 ricercatori. Ci sono l'ex ministro Tiziano Treu, Salvatore Vassallo, Fulvio Tessitore, Michele Salvati; dalla Sapienza di Roma Paolo Ridola, ordinario di Giurisprudenza, e il tributarista Pietro Boria; Mauro Calise della Federico II e Tommaso Frosini del Sant'Orsola Benincasa di Napoli; Marcello Flores D'arcais e Tania Groppi di Siena; Marcello Messori della Luiss; Anna Chimenti e Federico Ghera di Foggia; Francesco Clementi dell'università di Perugia; Marilisa d'Amico della Statale di Milano; Salvatore Curreri e Felice Giuffré della scuola siciliana; Andrea Morrone dell'università di Bologna; Ida Nicotra di Catania; Carla Bassu e Giuseppina Carboni di Sassari; Pietro Ciarla di Cagliari. L'appello, intanto, premette quale dovrebbe essere il ruolo degli studiosi sulla riforma: «Non fungere da terza istanza, bensì offrire all'opinione pubblica strumenti per orientare il proprio voto». Tra questi, il primo è di carattere politico: «L'iter è durato due anni, sei letture, quasi 6mila votazioni; centinaia di emendamenti. Fino alla prima lettura alla Camera il testo è stato condiviso da una maggioranza molto ampia poi ridottasi per motivi non relativi al suo contenuto».
Il riferimento è alla retromarcia di Forza Italia dopo la fine del patto del Nazareno con Silvio Berlusconi: a quel punto «riconoscerle un anomalo potere di veto avrebbe, danneggiato il Paese». Allo stesso modo è respinta l'obiezione che la Sentenza della Consulta che ha abbattuto il Porcellum (la precedente legge elettorale) abbia delegittimato il Parlamento attuale perché non è retroattiva. Non casuale, poi, il collegamento con la commissione istituita dall'allora premier Enrico Letta: riforma Boschi, si legge, e «direttamente» ispirata.
Quattro pagine destinate a diventare la "bibbia" di cinque mesi di campagna referendaria e il supporto giuridico per fondare i Comitati del Sì (Ceccanti è appena diventato presidente di quello toscano). Partendo dall'assunto che la forma modifica ma «non stravolge la Costituzione», c'è un riepilogo delle ragioni del Sì: il superamento dell'«anacronistico» bicameralismo paritario; la riforma del Titolo V dove «per la prima volta non si assiste a un aumento dei poteri del sistema regionale bensì a una loro, auspicata, razionalizzazione e riconduzione a dinamiche di governo complessive del Paese» senza però «azzeramento delle competenze regionali»; i limiti alla decretazione d'urgenza; il rafforzamento del sistema delle garanzie con le nuove regole su referendum e leggi di iniziativa popolare; l'abolizione del Cnel e di qualsiasi riferimento alle province.
Non è trascurato il profilo del taglio «significativo» dei costi della politica, caro agli elettori: 220 parlamentari in meno e un tetto all'indennità dei consiglieri regionali. Bocciata la proposta di spacchettare i quesiti, peraltro già naufragata da sé.
E viene affrontato il nodo dei nodi: il combinato disposto con l'Italicum che suscita nei critici motivi di allarme democratico. Intanto «gli elettori sono chiamati a pronunciarsi solo sulla riforma e non anche sulla legge elettorale». In ogni caso, nulla nell'Italicum «configura un'anomala concentrazione di poteri: la maggioranza di 24 deputati alla Camera per governare non consente al vincitore né di rivedere da solo la Costituzione né di esprimere da solo la composizione degli organi di garanzia. Questo, almeno, dicono i numeri».  
Federica Fantozzi

(L'Unità 24 maggio)