lunedì 30 gennaio 2017

Addio all'antropologa Clara Gallini

Se cerchiamo qualcosa allora il labirinto è il posto più adatto alla ricerca. Questa frase di Orson Welles potrebbe essere il compendio dell'opera di Clara Gallini, una delle più grandi antropologhe italiane, scomparsa l'altra notte a Roma all'età di 85 anni.
Cominciata nel 1954 con una tesi sul mito di Arianna, tutta la carriera di questa straordinaria studiosa si snoda come un filo, apparentemente ondivago ma estremamente rigoroso, attraverso antico e primitivo, antropologia e storia delle religioni, popolo contadino e borghesie urbane. Insomma un itinerario attraverso i passaggi e gli incroci che segnano i cammini e i destini delle scienze umane in Italia. Da Raffaele Pettazzoni ad Angelo Brelich. Ma a folgorarla sulla via dell'antropologia fu l'incontro con un totem come Ernesto de Martino che nel 1959 propose alla giovane ricercatrice di diventare sua assistente a Cagliari. In Sardegna Clara Gallini rimase a insegnare fino alla fine degli anni Settanta, poi fu chiamata all'Orientale di Napoli e infine all'università di Roma La Sapienza. L'insegnamento demartiniano si trasformò nelle sue mani in un ulteriore filo per addentrarsi in nuovi labirinti. Dal fenomeno ottocentesco del sonnambulismo femminile (esplorato in La sonnabula meravigliosa, Feltrinelli, poi L'Asino D'Oro) fino alla sopravvivenza del miracolo nell'immaginario contemporaneo, cui dedicò un capolavoro come Il miracolo e la sua prova. Un antropologo a Lourdes (Liguori). Gettando su questi fenomeni uno sguardo sempre spiazzante, refrattario alle chimere farlocche dell'arcaismo. «Pensiamo che i miracoli siano arcaici ma li abbiamo inventati noi moderni», disse un paio di anni fa ad Antonio Gnoli che le dedicò una memorabile intervista apparsa su questo giornale. Per la stessa ragione, le sonnambule che affollano le cronache dell'Italia umbertina non sono mai residui di medioevo, ma donne del loro tempo che emergono dalla storia e dalle cronache con la grazia sognante delle eroine del melodramma e la drammaticità straniata delle nuove figure del teatro borghese.
Capaci di riconvertire credenze, superstizioni e fantasie arcaiche in nuovi placebo psicologici. E alla fine, ripercorrendo a ritroso i sentieri che aveva esplorato per anni, non esitò ad addentrarsi nel dedalo più arduo e sofferto. Quello della sua malattia che affrontò in Incidenti di percorso (Nottetempo). Così, immergendosi nella cognizione del dolore si fece antropologa di se stessa. E, come avrebbe detto John Donne, cartografa degli ultimi perigliosi stretti che le restavano da attraversare.
Marino Niola

(la Repubblica 23 gennaio)