venerdì 30 giugno 2017

SCOMUNICARE I CORROTTI LA SVOLTA DEL PAPA

LA NOTIZIA che papa Francesco sta facendo elaborare una norma sulla condanna dei mafiosi e dei corrotti e sulla loro scomunica è rilevantissima per tre motivi. Perché ricorre alla norma, perché condanna categorie che vede essere parte della Chiesa e per lo strumento della scomunica che adotta, con implicazioni universali e nazionali. La norma, dunque. Francesco ha una predilezione tenace, talvolta ostinata, per le riforme a norme invariate. Ha trasformato il sinodo dei vescovi in un quasi-concilio, senza una legge; ha impiantato un organo di collegialità effettiva, atteso da mezzo secolo, con un chirografo di tre righe; ha rimesso al suo posto una paginetta del catechismo sulla omosessualità con una domanda retorica fatta ad alta quota; ha risolto decenni di dispute sulla ammissione dei divorziati risposati alla eucarestia con una nota di esortazione apostolica e una espressione ("in certi casi") che ricorre centinaia di volte nel catechismo e nel codice di diritto canonico. Che si faccia una legge non vuol dire che si sia arreso a forme non sue: ma il contrario. Ha cioè individuato in questo tema una questione che ha a che fare non con la "morale sociale", ma con la dignità dei poveri, che delle mafie e delle corruzioni sono le vittime e con quella teologia della liberazione dalla mafia senza la quale la Chiesa rischia di predicare a vuoto.
La condanna, poi. Francesco sa bene che il vissuto religioso è profondamente intrecciato ai fenomeni mafiosi: sa che i boss si mostrano pii e sa che lo fanno perché hanno avuto spazio per farlo. Come quando nel secondo dopoguerra italiano l'anticomunismo è diventato la giustificazione delle pratiche clientelari ed elettorali più ciniche, impersonate dall'andreottismo come filosofia politica. Una causa superiore ha giustificato per decenni ciò che in decenni recenti si è ritenuto fosse espiato dal martirio dei credenti che hanno lottato contro la mafia o da una invettiva papale. Questo humus autoassolutorio è operante (lo sa la commissione su mafie e religiosità istituita dal ministro Orlando in vista degli stati generali sulla lotta alla criminalità) e va tagliato: con la nettezza con cui Francesco, visitando tre anni fa esatti la diocesi di monsignor Galantino, scandì: «I mafiosi sono scomunicati».
Infine lo strumento della scomunica. Che colpisce l'immaginario secolarizzato come pena capitale, ma che in realtà nell'ordinamento canonico è pena medicinale, che vuole aprire una via di conversione. La Chiesa non può considerare eguali i portatori di connivenze o affari e la manovalanza di delinquenti e assassini che hanno facce segnate da sfruttamenti non meno tragici di quelli che colpiscono le loro vittime. La scomunica ha quindi senso se è la prima riga di una teologia della liberazione dalla corruzione mafiosa che insegni alla Chiesa e allo Stato che il moralismo, la retorica e l'antipolitica non solo non bastano, ma che senza un orizzonte di redenzione (quello che nel linguaggio politico si chiama giustizia) possono diventare lubrificante del male.
Se il Papa insegna che il povero e il popolo non sono spettatori di una partita ad armi impari fra legalità e illegalità ma vittime, sveglia le sue comunità; ma forse sveglia anche una società troppo desiderosa e interessata ad assuefarsi a mali battibili.
Alberto Melloni

(la Repubblica 18 giugno)