martedì 19 settembre 2017

TUTTI I VESCOVI PRIGIONIERI IN CINA

Francesco è il primo papa che ha sorvolato la Cina. Ma che vi metta anche piede è tutto da vedere. Nei giorni scorsi la Libreria Editrice Vaticana ha reso pubblico un dossier che è una clamorosa doccia gelata per chi continua a dare per imminente un accordo tra la Santa Sede e Pechino.
Il dossier, curato da Gianni Cardinale, esperto di geopolitica vaticana e firma eccellente di "Avvenire" e di "Limes", non commenta ma documenta ciò che fino a ieri si conosceva in dosi solo parziali. Fornisce per la prima volta i nomi dei vescovi di ciascuna diocesi cinese, ufficiali e clandestini, legittimi e abusivi. Ma soprattutto mette in fila le biografie, compilate dalla segreteria di Stato, di 75 vescovi morti in Cina dal 2004 a oggi, tutti torchiati da anni o decenni di prigione, di lavori forzati, di campi di rieducazione, di arresti domiciliari, di poliziotti perennemente alle costole. Se questo è il trattamento che il regime comunista infligge ai vescovi cinesi sul campo, è chiaro che tutto ciò dovrà cessare, prima che il Vaticano accetti di firmare con le autorità di Pechino un accordo sulle nomine dei vescovi futuri.
Il calvario dei vescovi cinesi, infatti, non risale solo a tempi lontani, a Mao Zedong e alla Rivoluzione Culturale. Prosegue anche dopo l'uscita dalla prigione dei vescovi o futuri vescovi, costretti per sopravvivere a lavorare in una miniera di sale o in una cava di pietra, a pascolare porci, a cuocere mattoni, i più fortunati a risuolare scarpe o a fare commercio ambulante. Ancora nel 2005 c'è un vescovo, Giovanni Gao Kexian della diocesi di Yantai, di cui si apprende la morte dopo che dal 1999, sequestrato dalla polizia, se ne erano perse le tracce. Lo stesso accade nel 2007 a un altro vescovo, Giovanni Han Dingxiang, della diocesi di Yongnian, imprigionato per vent'anni, poi rilasciato ma di nuovo fatto sparire nel 2006, la cui morte è comunicata ai famigliari dopo che era già stato cremato e sepolto in luogo ignoto. Nel 2010 è un altro vescovo ancora, Giovanni Yang Shudao della diocesi di Fuzhou, a morire dopo aver passato ventisei anni in prigione e gli altri «quasi sempre a domicilio coatto e sotto stretto controllo». Per non dire delle tribolazioni degli ultimi vescovi di Shanghai, il gesuita Giuseppe Fan Zhingliang, morto nel 2014 dopo «aver sempre esercitato il ministero nella clandestinità», e il suo successore Taddeo Ma Daqin, agli arresti dal 2012 per essersi dissociato dalla Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi - in obbedienza a Roma che giudica l'appartenenza ad essa «incompatibile» con la fede cattolica - e da allora mai più liberato nonostante abbia ritrattato un anno fa la sua dissociazione. Di quest'anno sono infine il sequestro e la detenzione in località ignota del vescovo Pietro Shao Zhumin della diocesi di Wenzhou, di cui prima l'ambasciata di Germania in Cina e poi la stessa Santa Sede, lo scorso 26 giugno, hanno chiesto pubblicamente il ritorno in libertà, senza trovare ascolto.
A fronte di tutto ciò, l'ottimismo di cui dà segno papa Francesco ogni volta che tocca la questione Cina può essere spiegato solo come un esercizio di Realpolitik spinta all'estremo. Perché è vero che un negoziato è in corso tra le due parti, con incontri ogni tre mesi una volta a Roma e un'altra a Pechino. Ma a parte l'impressionante assenza di libertà di cui dà prova il dossier vaticano pubblicato in questi giorni, ci sono almeno due ostacoli a un accordo sulle procedure di nomina dei futuri vescovi. Il primo è che la conferenza episcopale cinese, a cui spetterebbe l'indicazione dei candidati, è attualmente fatta soltanto dei vescovi ufficialmente riconosciuti da Pechino, senza la trentina di vescovi "clandestini" che invece sono riconosciuti soltanto da Roma; e non c'è verso di convincere le autorità cinesi a integrare anche questi. Mentre il secondo ostacolo è dato da sette vescovi "ufficiali" che il regime pretende siano riconosciuti anche dalla Santa Sede, tre dei quali pubblicamente scomunicati e un paio con amanti e figli.
Sandro Magister

(L'Espresso 10 settembre)