lunedì 18 dicembre 2017

"Combatto il tabù dell'omosessualità nel mondo ebraico ultraortodosso"

Quando Ezra Kramer sente per la prima volta pronunciare la parola gay da un compagno di scuola si chiede cosa voglia dire. È un adolescente, viene da una famiglia ebraica ultraortodossa di Boston e, malgrado la disapprovazione dei suoi genitori, frequenta il liceo religioso e moderno, dove scopre la complessità del mondo.
Ezra è il giovane protagonista di Grandangolo (Casa Editrice Giuntina), romanzo d'esordio di Simone Somekh, classe 1994, che per primo affronta nella letteratura ebraica italiana il tema del rapporto tra omosessualità e comunità ultraortodosse. Il titolo del libro, oltre a rivelare la passione per la fotografia sia dell'autore sia del protagonista, va dritto al cuore della narrazione. «In fotografia usi una lente grandangolare quando vuoi catturare nell'inquadratura il maggior  spazio possibile - spiega Somekh - ma poi i soggetti vengono deformati. E l'accusa che Ezra muove alla sua famiglia, perché per essere fedeli alla comunità si perdono valori come verità, lealtà e affetti».
Somekh ha scritto il libro a 21 anni tra Italia, Stati Uniti e Israele: nato a Torino, oggi vive a New York dove lavora come reporter e studia giornalismo. «Il mio non è un romanzo autobiografico - spiega - racconto i diversi mondi che ho conosciuto nella vita, nei miei viaggi, incontrando persone. Io sono osservante e vengo da una famiglia ortodossa esposta alla modernità, mentre le famiglie ultraortodosse non lo sono, vivono in una realtà dove i tabù definiscono delle "non identità"».
Il suo è un romanzo di formazione, un viaggio attraverso il cambiamento, in cui i personaggi decidono di allontanarsi dalle proprie famiglie per aprirsi al mondo: Ezra per realizzare i suoi sogni come fotografo professionista dalla New York dell'alta moda al Bahrein delle rivolte arabe. Carmi Taub, fratello adottivo del protagonista, perché è gay, non è accettato dalla comunità e vuole essere libero. «Io sono nato all'alba della generazione Z, non credo al bianco e al nero, mi affascinano le sfumature - spiega Somekh -. Noi post millennials anche sulla sessualità non sentiamo il bisogno di incasellarci in categorie, siamo meno spaventati dalla fluidità, un concetto molto presente nel romanzo e fra i miei coetanei. Ho deciso di affrontare il tema dell'omosessualità perché diversi ragazzi lasciano il mondo ultraortodosso perché sono Lgbt».
Somekh ha intervistato molti giovani che hanno fatto questa scelta: «Lasciano le comunità perché l'orientamento sessuale è un tabù nella maggior parte dei contesti ortodossi, non solo ebraici. È come se la parola gay non esistesse. Ma una persona esiste ancora se si cancella la sua identità? Si tratta di un'esperienza traumatica, anche nel libro. Io volevo sfatare questo tabù, anche se nel romanzo affronto anche altre tematiche, sono partito da lontano».
Ad aver ispirato l'autore infatti è stata l'idea dell'adozione collettiva di bambini orfani da parte delle famiglie ortodosse. «A Londra incontrai un padre vedovo che aveva dato in adozione i suoi figli. - racconta -. Questa cosa mi colpì molto, lo trovai un aspetto bellissimo della dimensione collettiva. La realtà della comunità ultraortodossa non è polarizzata, come spesso si crede, ma complessa, piena di sfumature. Non volevo scrivere un J'Accuse al mondo ultraortodosso, ma aggiungere un tassello al puzzle della tradizione di romanzi ambientati nel contesto ebraico, con protagonisti come l'Asher Lev di Chaim Potok o gli antieroi di Jonathan Franzen. Poi, scrivendo, ho raccontato le sfide che la mia generazione deve affrontare».
C'è il tema della realizzazione personale, il perseguimento della carriera, la «fluidità geografica» e un messaggio universale: «Un romanzo di formazione oggi non può non raccontare l'esperienza del viaggio fisico. Non sono mai stato un ragazzo popolare a scuola - conclude lo scrittore-, mi sentivo lo sfigato della classe, e il senso di rivalsa è cresciuto in me negli anni, come nel protagonista. A 17 anni vidi per la prima volta New York attraverso, il vetro dell'autobus, me ne innamorai e promisi a me stesso che un giorno ci sarei tornato per vivere. Così è stato. Vorrei che Grandangolo offrisse uno spunto di riflessione a tutti i giovani, che vogliono realizzarsi e sentirsi meno soli».
Angela Piattelli

(La Stampa 1 dicembre)