LE DISPARITÀ LA VERA SFIDA
La sinistra è in crisi in tutta Europa. Ma l'economia del vecchio continente non è mai andata così bene, da quando c'è l'euro. All'apparenza è un paradosso ben strano. Mai visto prima. Basti pensare che negli anni Trenta, quando il più grande paese europeo malauguratamente si affidò alle cure hitleriane, eravamo nel bel mezzo di una crisi economica senza precedenti. Ora non è più così: forse l'economia non conta più nulla nelle scelte degli elettori?
L'economia conta ancora. Ma per sciogliere l'enigma, bisogna guardare dentro i dati sulla crescita, capire chi ci guadagna e chi perde. Si scoprirà allora che la disuguaglianza, nei paesi occidentali, non è mai stata così alta, se non forse alla vigilia della prima guerra mondiale (e già quel precedente dovrebbe far riflettere). Di più. Si scoprirà che dagli anni Settanta a oggi la classe media negli Usa non ha migliorato il proprio standard di vita: nonostante il grande aumento del Pil e della produttività, nonostante quel paese abbia guidato la rivoluzione tecnologica dell'ultima generazione. In Europa le cose sono andate un po' meglio, merito della tenuta dei sistemi di welfare. Ma in Italia, complice anche la bassissima crescita, da venticinque anni i redditi della classe media sono stagnanti o in diminuzione. Non a caso il nostro è il paese dove le formazioni populiste rischiano di diventare, fra non molto, le più forti di tutta l'Europa occidentale.
Certo, da noi sulla debolezza della sinistra pesano miopi tatticismi e ingiustificabili rancori personali. Ma non c'è solo questo. Vi è un'inadeguatezza di fondo della classe dirigente, che ha portato a diagnosi, e quindi a soluzioni, sbagliate. Renzi, con qualche eccezione (gli ottanta euro, quando non a caso il suo consenso toccò il massimo), ha spesso compiuto scelte che favorivano i ceti privilegiati (il taglio indiscriminato delle tasse, anche per i più ricchi), per di più condendole con una narrativa smaccatamente ottimistica, dimentica di chi è rimasto indietro. Sull'altro versante, le forze alla sua sinistra hanno profuso enormi energie nella difesa delle pensioni: ma in Italia i più poveri (i più colpiti dalla crisi) sono i giovani, non gli anziani. E anche i giovani, non basta difenderli a parole: in un mondo globalizzato il lavoro ben pagato non nasce dal nulla, non lo si può imporre per legge; ma è il risultato di n'economia competitiva, con istituzioni efficienti, che crea innovazione - tutto quello che l'Italia non è.
Bisogna poi avere il coraggio di dire che, se le disuguaglianze dentro i paesi ricchi sono aumentate con la globalizzazione, quelle fra noi e il resto del mondo sono diminuite. I partiti di sinistra e riformisti, per incapacità culturale o perché adagiati su posizioni di rendita, hanno invece offerto della globalizzazione interpretazioni parziali, o deformate. Da un lato, si è detto, la globalizzazione
fa crescere le disuguaglianze e i conflitti in tutto il mondo, va combattuta e respinta: falso.
Dall'altro, si sostiene, la globalizzazione dev'essere accettata senza riserve, eliminando lacci e lacciuoli anche per i più ricchi che ne sono il motore: è ugualmente falso. La globalizzazione va gestita, con la politica. Un esempio? Rafforzare l'Europa, federale e democratica: l'unico modo per contrastare efficacemente lo strapotere dei miliardari e delle grandi corporation. Ma chi è che a sinistra propone l'unione fiscale europea?
Il grande problema delle nostre società avanzate è la disuguaglianza. Minaccia la tenuta stessa della democrazia. Il secondo forse è l'ambiente. Per entrambi le soluzioni vanno trovate in un mondo che, per fortuna, è diventato globale. Se questo è vero, non c'è mai stato tanto bisogno di sinistra come ora, perlomeno negli ultimi cinquant'anni. Ma la sinistra dev'essere capace di elaborare un pensiero all'altezza delle sfide che ha davanti.Emanuele Felice
(la Repubblica 30 novembre 2017)
La sinistra è in crisi in tutta Europa. Ma l'economia del vecchio continente non è mai andata così bene, da quando c'è l'euro. All'apparenza è un paradosso ben strano. Mai visto prima. Basti pensare che negli anni Trenta, quando il più grande paese europeo malauguratamente si affidò alle cure hitleriane, eravamo nel bel mezzo di una crisi economica senza precedenti. Ora non è più così: forse l'economia non conta più nulla nelle scelte degli elettori?
L'economia conta ancora. Ma per sciogliere l'enigma, bisogna guardare dentro i dati sulla crescita, capire chi ci guadagna e chi perde. Si scoprirà allora che la disuguaglianza, nei paesi occidentali, non è mai stata così alta, se non forse alla vigilia della prima guerra mondiale (e già quel precedente dovrebbe far riflettere). Di più. Si scoprirà che dagli anni Settanta a oggi la classe media negli Usa non ha migliorato il proprio standard di vita: nonostante il grande aumento del Pil e della produttività, nonostante quel paese abbia guidato la rivoluzione tecnologica dell'ultima generazione. In Europa le cose sono andate un po' meglio, merito della tenuta dei sistemi di welfare. Ma in Italia, complice anche la bassissima crescita, da venticinque anni i redditi della classe media sono stagnanti o in diminuzione. Non a caso il nostro è il paese dove le formazioni populiste rischiano di diventare, fra non molto, le più forti di tutta l'Europa occidentale.
Certo, da noi sulla debolezza della sinistra pesano miopi tatticismi e ingiustificabili rancori personali. Ma non c'è solo questo. Vi è un'inadeguatezza di fondo della classe dirigente, che ha portato a diagnosi, e quindi a soluzioni, sbagliate. Renzi, con qualche eccezione (gli ottanta euro, quando non a caso il suo consenso toccò il massimo), ha spesso compiuto scelte che favorivano i ceti privilegiati (il taglio indiscriminato delle tasse, anche per i più ricchi), per di più condendole con una narrativa smaccatamente ottimistica, dimentica di chi è rimasto indietro. Sull'altro versante, le forze alla sua sinistra hanno profuso enormi energie nella difesa delle pensioni: ma in Italia i più poveri (i più colpiti dalla crisi) sono i giovani, non gli anziani. E anche i giovani, non basta difenderli a parole: in un mondo globalizzato il lavoro ben pagato non nasce dal nulla, non lo si può imporre per legge; ma è il risultato di n'economia competitiva, con istituzioni efficienti, che crea innovazione - tutto quello che l'Italia non è.
Bisogna poi avere il coraggio di dire che, se le disuguaglianze dentro i paesi ricchi sono aumentate con la globalizzazione, quelle fra noi e il resto del mondo sono diminuite. I partiti di sinistra e riformisti, per incapacità culturale o perché adagiati su posizioni di rendita, hanno invece offerto della globalizzazione interpretazioni parziali, o deformate. Da un lato, si è detto, la globalizzazione
fa crescere le disuguaglianze e i conflitti in tutto il mondo, va combattuta e respinta: falso.
Dall'altro, si sostiene, la globalizzazione dev'essere accettata senza riserve, eliminando lacci e lacciuoli anche per i più ricchi che ne sono il motore: è ugualmente falso. La globalizzazione va gestita, con la politica. Un esempio? Rafforzare l'Europa, federale e democratica: l'unico modo per contrastare efficacemente lo strapotere dei miliardari e delle grandi corporation. Ma chi è che a sinistra propone l'unione fiscale europea?
Il grande problema delle nostre società avanzate è la disuguaglianza. Minaccia la tenuta stessa della democrazia. Il secondo forse è l'ambiente. Per entrambi le soluzioni vanno trovate in un mondo che, per fortuna, è diventato globale. Se questo è vero, non c'è mai stato tanto bisogno di sinistra come ora, perlomeno negli ultimi cinquant'anni. Ma la sinistra dev'essere capace di elaborare un pensiero all'altezza delle sfide che ha davanti.Emanuele Felice
(la Repubblica 30 novembre 2017)