giovedì 22 marzo 2018

Vi racconto la strage rohingya nei campi proibiti

Sono Wara ha pianto per tutto il giorno. Poi non ha avuto più lacrime, ma la sua maglietta era bagnata lo stesso, per le perdite di latte.
I suoi gemelli appena nati sono morti da 24 ore. Non ha potuto fare altro che accovacciarsi nella capanna dal tetto d'erba, distrutta dal dolore e dal lutto. Ha 18 anni e questa era la sua prima gravidanza, ma appartiene alla minoranza etnica dei rohingya e non ha potuto avere l'aiuto di un medico. Il parto è stato difficile. I suoi gemelli sono già stati sepolti. A volte il Myanmar usa le armi e i machete per la pulizia etnica: è così che Sono Wara ha perso sua madre e sua sorella. Ma uccide anche in un modo più sottile e nascosto, negando regolarmente le cure sanitarie e bloccando gli aiuti umanitari ai rohingya. I suoi gemelli sono morti per questo.
Il Myanmar e Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, stanno cercando di rendere invivibile la vita dei rohingya, e di farlo senza testimoni. Negli ultimi mesi, sono fuggiti in Bangladesh circa 700.000 rohingya, ma si sa poco sul destino di quelli che sono rimasti indietro, poiché il Myanmar in genere non lascia entrare gli stranieri nelle aree dove si trovano i rohingya. Il governo ha mandato un chiaro avvertimento con l'arresto di due giornalisti della Reuters che avevano raccontato un massacro di rohingya ad opera dell'esercito; i giornalisti rischiano 14 anni di carcere per un atto di giornalismo eccezionale.
Arrivato in Myanmar con un visto turistico, sono riuscito a introdurmi in cinque villaggi rohingya. Quello che ho trovato è un genocidio al rallentatore. I massacri e gli attacchi a colpi di machete dello scorso agosto sono finiti per ora, ma i rohingya restano confinati nei loro villaggi - e in un enorme campo di concentramento - e gli viene sistematicamente negato quasi ogni tipo di accesso all'istruzione e alle cure mediche.
Quindi, muoiono. Nessuno conta le morti con precisione, ma la mia sensazione è che il governo del Myanmar uccida più rohingya negando loro l'assistenza sanitaria e a volte il cibo che brandendo i machete o sparandogli addosso.
Questo è il mio quarto viaggio in quattro anni per parlare dei rohingya, una minoranza musulmana disprezzata in un Paese prevalentemente buddista, e all'inizio usavo il termine "pulizia etnica". Come molti osservatori incaricati di verificare il rispetto dei diritti umani, sono arrivato a concludere che quello che si sta svolgendo qui deve probabilmente definirsi un genocidio.
Alcuni professori dell'università di Yale e il Museo americano dell'Olocausto hanno già avvertito che questo potrebbe essere un genocidio, come ha ribadito l'Alto Commissario per i Diritti umani delle Nazioni Unite, Zeid Ra'ad al-Hussein.
Sono Wara non ha potuto ricevere la minima assistenza prenatale, né prestazioni di pronto soccorso. In una situazione critica, un rohingya può chiedere alla polizia il permesso di andare in una clinica governativa vicina che serve la popolazione generale, ma non c'è un medico, e i rohingya hanno spesso paura di essere attaccati.
Secondo una teoria, il Myanmar sta cercando di creare una miseria e una paura tali da far fuggire i rohingya da soli. Sono Wara dice che lei e suo marito hanno discusso se tentare di fuggire in Malaysia - un viaggio pericoloso in cui si rischia spesso lo stupro, la rapina e la morte.
La pulizia etnica del Myanmar è diventata impossibile da nascondere quando l'esodo dei rohingya in agosto ha portato con sé storie di massacri e di pogrom.
Nell'intervistare quei rifugiati, alla fine dell'anno scorso, rimasi particolarmente scosso dal racconto di una donna, Hasina Begum, che mi raccontò come i soldati avessero massacrato uomini e ragazzi nel suo villaggio, facendo poi un falò dei loro corpi e poi avevano portato le donne in una capanna per violentarle. «Ho cercato di nascondere mia figlia sotto la sciarpa, ma hanno visto la sua gamba», mi disse Hasina Begum. «L'hanno afferrata per la gamba e gettata nel fuoco».
Quello che sta accadendo a chi è rimasto nei villaggi è un tipo di brutalità più banale. In un remoto villaggio raggiungibile solo in barca o a piedi, lungo un sentiero, ho visto una ragazzina che lavava il fratellino minore, un bambino rachitico di 4 anni, Umar Amin.
Ho preso dalla mia borsa un braccialetto MUAC, che serve per valutare lo stato nutrizionale dei bambini misurando la parte superiore del braccio, e Umar Amin toccava la zona di pericolo rossa, quella che indica una malnutrizione acuta grave. Non riesce a camminare, né a parlare e ha un disperato bisogno di aiuto, ma non è mai stato possibile farlo vedere da un medico.
Che dire di "The Lady", di Aung San Suu Kyi, che ha ottenuto il premio Nobel per la sua risoluta lotta a favore dei diritti umani nel Myanmar? Oggi è di fatto la leader del governo del Myanmar e non solo ha difeso questo genocidio, ma se ne è dimostrata anche complice.
Suu Kyi non controlla l'esercito, che ha commesso i massacri, ma ha contribuito a tenere lontani i gruppi di soccorso. Ha anche cercato di cancellare l'esistenza dei rohingya, rifiutando questo termine e affermando che si tratta solo di immigrati illegali provenienti dal Bangladesh. Ed è il suo governo che sta promuovendo la causa penale contro i due giornalisti della Reuters.
Sono riuscito a ottenere un visto turistico in quanto responsabile di una parte di un viaggio turistico sponsorizzato dalla New York Times Company in Myanmar. Il visto era accompagnato da un severo avvertimento a non pubblicare nulla su ciò che vedevo. In generale, credo che i giornalisti dovrebbero obbedire alle leggi dei Paesi che visitano, ma faccio un'eccezione quando un regime usa le sue leggi per commettere crimini contro l'umanità e per nasconderli.
Nel corso del viaggio, una volta sono arrivato che era buio, e c'erano meno probabilità di essere notato. Altre volte, gli abitanti del villaggio mi hanno consigliato quali strade prendere per evitare la polizia. Per raggiungere due villaggi, ho preso una barca per evitare un posto di blocco della polizia.
In uno dei villaggi raggiunti in barca, ho incontrato Zainul Abedin, che piangeva sua moglie, Jahan Aara, di 20 anni, morta di parto, insieme al loro bambino.
Era la sua prima gravidanza e non aveva avuto nessuna assistenza sanitaria.
«Forse sarebbe morta anche in un ospedale, ma almeno avrebbe avuto una possibilità», ha detto Zainul Abedin. «In questo modo, invece, non ha nemmeno avuto la possibilità di farcela».
(traduzione di Luis E. Moriones)
Nicholas Kristof, STATO DI RAKHINE, MYANMAR

(la Repubblica 7 marzo 2018)