mercoledì 16 maggio 2018

Il medico si allea con l'antropologo per curare l'anima

La malattia è il lato notturno della vita. Una cittadinanza più onerosa, la chiama Susan Sontag. Nel caso dell'Alzheimer quest'effetto notte è particolarmente lungo e doloroso. Per chi si ammala e per chi soffre con lui e per lui. Ma soprattutto è una sfida per la medicina che è chiamata a svolgere un ruolo diagnostico e terapeutico per cui gli strumenti curativi tradizionali non bastano. L'occhio clinico deve affinare il suo sguardo e destrutturare i suoi metodi, renderli più aperti all'esperienza vissuta dal paziente e dai suoi cari. Insomma esiste una complessità del patire con cui è necessario fare i conti. Proprio a questa complessità è dedicato un bel libro appena uscito di Elisa Pasquarelli, Antropologia dell'Alzheimer: Neurologia e politiche della normalità (Edizioni Alpes, pp. 229, euro 19). Il volume, arricchito da un'importante introduzione di Giovanni Pizza, è frutto di una ricerca sul campo condotta presso il Centro disturbi della memoria dell'Ospedale di Santa Maria della Misericordia di Perugia. E mostra, dati alla mano, gli effetti positivi di una collaborazione tra medici e antropologi. Che aiuta a illuminane una terra di nessuno della medicina e della vita come il Mild Cognitive Impairment, il "deterioramento cognitivo lieve". Cioè la zona grigia che sta tra malattia della terza età e terza età come malattia. È una frontiera mobile tra normale e patologico, tra invecchiamento e demenza. Dove appare in tutta la sua importanza la narrazione del malato che racconta la sua esperienza. Con l'effetto positivo di rimettere al centro della diagnosi e della terapia la dimensione umana, emotiva, affettiva che fa di ogni paziente una persona.
Marino Niola

(Il Venerdì 4 maggio)