Migrare, declinazione di coloniale
Intervista. Ha
organizzato rivolte e reti di solidarietà di
rifugiati in Marocco e in Europa, ora Emmanuel
Mbolela spiega con il suo libro perché si fugge e da
cosa. «Qui in Italia tutte le contraddizioni»
Marc
TibaldiIl
Manifesto - 18.09.2018 - 17.9.2018,
23:59
«La
retorica dell’aiutiamoli a casa loro, sostenuta da
partiti e movimenti di varia estrazione, non è
valida, è falsa e ipocrita, non solo perché il
pianeta Terra è la casa di tutti, ma anche perché
le strade che oggi gli uomini e le donne migranti
intraprendono per venire in Europa non sono gli
africani che le hanno create, ma sono le strade
che gli europei hanno creato per andare in
Africa», ci dice Emmanuel Mbolela, fuggito nella
Repubblica Democratica del Congo nel 2002 perché
militante dell’opposizione a Kabila, prima di
ottenere asilo politico in Olanda, nel 2008.
Il suo viaggio è durato sei anni durante i quali ha affrontato – come migliaia di altri africani in questi anni – difficoltà e sofferenze: racket, agguati nel deserto del Sahara, lavoro nero, per arrivare in Marocco, dove è rimasto bloccato per quattro anni. Lì con altri compagni ha fondato l’associazione dei rifugiati congolesi in Marocco, rifiutando di essere vittime, organizzando lotte e reti di solidarietà. In Europa ha co-fondato l’associazione Afrique-Europe Interact, con attivisti pro-rifugiati. E poi ha scritto il libro Rifugiato. Un’odissea africana, tradotto ora in Italia da Agenzia X (pag.190, 15 euro), che in questi giorni sta presentando in Italia. Dopo il Festival antirazzista in memoria di Abba a Milano, venerdì è stato a Roma allo Spin Time Labs, poi a Brescia alla Casa del Quartiere. E quindi di nuovo a Milano al Csoa Cox in via Conchetta 18.
Fin dalle prime risposte è evidente che Mbolela non vuole essere biografico. Le sue dichiarazioni sono frutto del sapere delle lotte. Porta il discorso sempre sul piano politico, non vuole atteggiarsi a eroe o leader, ma dare un contributo politico a questioni politiche.
Quando sei partito avevi idea di cosa avresti dovuto affrontare?
Avevo partecipato alle lotte contro la dittatura e a causa della repressione ho dovuto decidere di partire senza preparazione. Prima in Congo Brazaville, e poi attraverso quattro Paesi e dopo migliaia di chilometri ho raggiunto il Mali, per affrontare la durissima traversata del deserto e arrivare in Algeria. Dopo due anni di viaggio riuscii a raggiungere il Marocco. Ma il calvario non era finito, non avevamo nessun diritto, non avevamo la possibilità di lavorare, la repressione era feroce, con la possibilità di essere respinti di nuovo in Algeria.
Vi siete rifiutati di essere vittime passive.
I rifugiati non sono solo vittime, si sanno organizzare. Ci sono due cose importanti, che ho cercato di far emergere nel libro: la solidarietà pragmatica e diretta e l’auto-organizzazione, la lotta. I migranti si aiutano e si consigliano, non pensano solo a sé stessi. Abbiamo organizzato le prime dimostrazioni davanti all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Unhcr, rivendicando dignità e diritti. Abbiamo iniziato a porre richieste al di là del singolo aiuto e della carità per la sopravvivenza. Abbiamo posto questioni politiche. Quattro anni di lotte. Di sofferenze e di lotte.
Si emigra per necessità, ma si emigra anche per desiderio?
Sì, è vero, da che mondo è mondo le migrazioni sono sempre avvenute e sicuramente nei giovani che partono c’è una compresenza di motivazioni. Con la planetarizzazione delle comunicazioni e dell’informazione, c’è il desiderio di conoscere, di viaggiare, di avere la possibilità di essere più liberi. D’altro canto, vorrei sottolineare che per molti non si dovrebbe parlare di migrazione economica, ma di persecuzione economica, perché la povertà e la mancanza di risorse da cui si fugge sono l’eredità del colonialismo e dello sfruttamento odierno delle multinazionali. Uno dei discorsi che si ascoltano in Europa è che con la conquista dell’indipendenza la colonizzazione nei Paesi africani sia stata annullata. Purtroppo non è così. La colonizzazione è continuata da parte delle multinazionali e con il ricatto – a livello strutturale ed economico – delle politiche della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.
Qual è la tua opinione sull’esternalizzazione delle frontiere da parte dell’Europa?
Esternalizzare le frontiere è immorale e illusorio, così com’è illusorio cercare di fermare la migrazione inviando nei Paesi africani le immagini dei morti nel Mediterraneo. La politica di esternalizzazione voluta dall’Unione europea apre a trattative con Paesi terzi senza tenere in considerazione quale sia lo stato dei diritti umani in questi luoghi o come vengano gestite dai governi locali le questioni migratorie. L’unico elemento che viene preso in considerazione è quello dell’interesse geopolitico, nel senso che vengono aperte trattative con Paesi “chiave” alla luce della loro vicinanza con l’Europa. Se da sempre si fa un utilizzo strumentale dei fondi allo sviluppo, adesso si è proprio messo nero su bianco che tali aiuti sono incentivi o penalità per chi collabora o meno nelle procedure di espulsione e rimpatrio. Gli aiuti allo sviluppo sono così diventati uno strumento di attuazione di politiche di controllo nei Paesi di origine e transito dei flussi migratori. In pratica il traffico di uomini e soldi di cui sono accusati i passeurs viene gestito dall’Unione europea e dagli Stati coinvolti. Si parla dei trafficanti di uomini come del peggior esempio della specie umana, ma quando le negoziazioni vengono fatte a livello istituzionale, come si è fatto con la Turchia, Marocco, Algeria, così come ora con le milizie libiche, lo stesso traffico di uomini assume un carattere non moralmente denunciabile.
Sostieni che il libro sia uno strumento di lotta, perché?
Ho fatto più di 300 presentazioni dell’edizione tedesca in Germania, Svizzera e Austria. Poi c’è stata l’edizione francese e ora quella italiana. Bisogna capire realmente perché i migranti si muovono dai propri Paesi d’origine e soprattutto la realtà di quei Paesi, senza accontentarsi di spiegazioni generiche tipo «vengono dalla guerra, vengono dalla miseria». Sono spiegazioni macro-geografiche che non fanno conoscere i reali responsabili di questa situazione. La vendita del libro serve per dare informazioni reali sulla questione, per creare relazioni e collaborazioni, e per sostenere le associazioni di rifugiati subsahariani in Marocco, in particolare un centro per donne migranti a Rabat. Una parte interessante del libro è dedicato a come le donne vivono violenza e sfruttamento maggiori rispetto agli uomini, ma anche come siano promotrici di iniziative di resistenza e di protesta. Il ruolo della donna in Africa sta cambiando, anche nella mia esperienza di lotta in Marocco senza il coraggio delle donne non saremmo stati così incisivi.
Cosa ti aspetti dalle presentazioni italiane?
L’Italia è un Paese importante nella questione delle migrazioni, è una porta d’ingresso, è il Paese in cui si assiste agli annegamenti, si lascia morire la gente in mare nonostante si abbiano tutti i mezzi per salvarla, e quindi è importante questa traduzione. Oggi le strade che gli europei hanno creato devono essere libere e sicure per i migranti che vogliano farle nel senso inverso. Quando gli europei sono arrivati in Africa non sono stati mandati via, anzi, si sono impossessati delle ricchezze e delle materie prime (e i benefici in maggior parte non rimangono in Africa), cosa che le multinazionali continuano a fare, destabilizzando politicamente quei Paesi per avere più facilità nei loro intenti. E le armi che nei Paesi africani vengono usate per le guerre non sono prodotte di certo in Africa, vengono dall’Europa. Se dobbiamo cercare soluzioni ai problemi del pianeta dobbiamo trovarle assieme, rendendo possibile la libertà di migrare degli esseri umani e ragionando sull’uso delle materie prime.
Il suo viaggio è durato sei anni durante i quali ha affrontato – come migliaia di altri africani in questi anni – difficoltà e sofferenze: racket, agguati nel deserto del Sahara, lavoro nero, per arrivare in Marocco, dove è rimasto bloccato per quattro anni. Lì con altri compagni ha fondato l’associazione dei rifugiati congolesi in Marocco, rifiutando di essere vittime, organizzando lotte e reti di solidarietà. In Europa ha co-fondato l’associazione Afrique-Europe Interact, con attivisti pro-rifugiati. E poi ha scritto il libro Rifugiato. Un’odissea africana, tradotto ora in Italia da Agenzia X (pag.190, 15 euro), che in questi giorni sta presentando in Italia. Dopo il Festival antirazzista in memoria di Abba a Milano, venerdì è stato a Roma allo Spin Time Labs, poi a Brescia alla Casa del Quartiere. E quindi di nuovo a Milano al Csoa Cox in via Conchetta 18.
Fin dalle prime risposte è evidente che Mbolela non vuole essere biografico. Le sue dichiarazioni sono frutto del sapere delle lotte. Porta il discorso sempre sul piano politico, non vuole atteggiarsi a eroe o leader, ma dare un contributo politico a questioni politiche.
Quando sei partito avevi idea di cosa avresti dovuto affrontare?
Avevo partecipato alle lotte contro la dittatura e a causa della repressione ho dovuto decidere di partire senza preparazione. Prima in Congo Brazaville, e poi attraverso quattro Paesi e dopo migliaia di chilometri ho raggiunto il Mali, per affrontare la durissima traversata del deserto e arrivare in Algeria. Dopo due anni di viaggio riuscii a raggiungere il Marocco. Ma il calvario non era finito, non avevamo nessun diritto, non avevamo la possibilità di lavorare, la repressione era feroce, con la possibilità di essere respinti di nuovo in Algeria.
Vi siete rifiutati di essere vittime passive.
I rifugiati non sono solo vittime, si sanno organizzare. Ci sono due cose importanti, che ho cercato di far emergere nel libro: la solidarietà pragmatica e diretta e l’auto-organizzazione, la lotta. I migranti si aiutano e si consigliano, non pensano solo a sé stessi. Abbiamo organizzato le prime dimostrazioni davanti all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Unhcr, rivendicando dignità e diritti. Abbiamo iniziato a porre richieste al di là del singolo aiuto e della carità per la sopravvivenza. Abbiamo posto questioni politiche. Quattro anni di lotte. Di sofferenze e di lotte.
Si emigra per necessità, ma si emigra anche per desiderio?
Sì, è vero, da che mondo è mondo le migrazioni sono sempre avvenute e sicuramente nei giovani che partono c’è una compresenza di motivazioni. Con la planetarizzazione delle comunicazioni e dell’informazione, c’è il desiderio di conoscere, di viaggiare, di avere la possibilità di essere più liberi. D’altro canto, vorrei sottolineare che per molti non si dovrebbe parlare di migrazione economica, ma di persecuzione economica, perché la povertà e la mancanza di risorse da cui si fugge sono l’eredità del colonialismo e dello sfruttamento odierno delle multinazionali. Uno dei discorsi che si ascoltano in Europa è che con la conquista dell’indipendenza la colonizzazione nei Paesi africani sia stata annullata. Purtroppo non è così. La colonizzazione è continuata da parte delle multinazionali e con il ricatto – a livello strutturale ed economico – delle politiche della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.
Qual è la tua opinione sull’esternalizzazione delle frontiere da parte dell’Europa?
Esternalizzare le frontiere è immorale e illusorio, così com’è illusorio cercare di fermare la migrazione inviando nei Paesi africani le immagini dei morti nel Mediterraneo. La politica di esternalizzazione voluta dall’Unione europea apre a trattative con Paesi terzi senza tenere in considerazione quale sia lo stato dei diritti umani in questi luoghi o come vengano gestite dai governi locali le questioni migratorie. L’unico elemento che viene preso in considerazione è quello dell’interesse geopolitico, nel senso che vengono aperte trattative con Paesi “chiave” alla luce della loro vicinanza con l’Europa. Se da sempre si fa un utilizzo strumentale dei fondi allo sviluppo, adesso si è proprio messo nero su bianco che tali aiuti sono incentivi o penalità per chi collabora o meno nelle procedure di espulsione e rimpatrio. Gli aiuti allo sviluppo sono così diventati uno strumento di attuazione di politiche di controllo nei Paesi di origine e transito dei flussi migratori. In pratica il traffico di uomini e soldi di cui sono accusati i passeurs viene gestito dall’Unione europea e dagli Stati coinvolti. Si parla dei trafficanti di uomini come del peggior esempio della specie umana, ma quando le negoziazioni vengono fatte a livello istituzionale, come si è fatto con la Turchia, Marocco, Algeria, così come ora con le milizie libiche, lo stesso traffico di uomini assume un carattere non moralmente denunciabile.
Sostieni che il libro sia uno strumento di lotta, perché?
Ho fatto più di 300 presentazioni dell’edizione tedesca in Germania, Svizzera e Austria. Poi c’è stata l’edizione francese e ora quella italiana. Bisogna capire realmente perché i migranti si muovono dai propri Paesi d’origine e soprattutto la realtà di quei Paesi, senza accontentarsi di spiegazioni generiche tipo «vengono dalla guerra, vengono dalla miseria». Sono spiegazioni macro-geografiche che non fanno conoscere i reali responsabili di questa situazione. La vendita del libro serve per dare informazioni reali sulla questione, per creare relazioni e collaborazioni, e per sostenere le associazioni di rifugiati subsahariani in Marocco, in particolare un centro per donne migranti a Rabat. Una parte interessante del libro è dedicato a come le donne vivono violenza e sfruttamento maggiori rispetto agli uomini, ma anche come siano promotrici di iniziative di resistenza e di protesta. Il ruolo della donna in Africa sta cambiando, anche nella mia esperienza di lotta in Marocco senza il coraggio delle donne non saremmo stati così incisivi.
Cosa ti aspetti dalle presentazioni italiane?
L’Italia è un Paese importante nella questione delle migrazioni, è una porta d’ingresso, è il Paese in cui si assiste agli annegamenti, si lascia morire la gente in mare nonostante si abbiano tutti i mezzi per salvarla, e quindi è importante questa traduzione. Oggi le strade che gli europei hanno creato devono essere libere e sicure per i migranti che vogliano farle nel senso inverso. Quando gli europei sono arrivati in Africa non sono stati mandati via, anzi, si sono impossessati delle ricchezze e delle materie prime (e i benefici in maggior parte non rimangono in Africa), cosa che le multinazionali continuano a fare, destabilizzando politicamente quei Paesi per avere più facilità nei loro intenti. E le armi che nei Paesi africani vengono usate per le guerre non sono prodotte di certo in Africa, vengono dall’Europa. Se dobbiamo cercare soluzioni ai problemi del pianeta dobbiamo trovarle assieme, rendendo possibile la libertà di migrare degli esseri umani e ragionando sull’uso delle materie prime.