IL GIAPPONE APRE ALL'IMMIGRAZIONE
Gli stranieri residenti in Giappone al momento rappresentano circa il 2 per cento della popolazione, uno dei valori più bassi nei Paesi Osce. I governi nipponici nel dopoguerra hanno perseguito una politica di chiusura all'immigrazione. Al centro delle loro politiche c'è sempre stata la preoccupazione per l'omogeneità etnica e culturale del Paese, che nel dibattito intellettuale viene vista come necessario presupposto per la fedeltà incondizionata alle autorità e per l'appartenenza alla grande famiglia giapponese con a capo l'imperatore, come ricostruisce il sociologo Eiji Oguma.
Ora però queste ragioni sono entrate in crisi. La causa è la doppia pressione del calo demografico e dell'aumento della domanda di lavoro, soprattutto ai livelli più bassi della manodopera. Negli ultimi cinque anni la forza lavoro giapponese è calata di circa 4 milioni di persone per l'invecchiamento della popolazione, mentre nello stesso periodo l'occupazione è aumentata di oltre 2 milioni e 700 mila posti. Tre sono i settori principalmente coinvolti: agricoltura, assistenza sanitaria e agli anziani, e infine costruzioni. Le Olimpiadi di Tokyo 2020 si avvicinano e c'è molto da costruire, l'edilizia è uno settori più colpiti dalla carenza di manodopera. Le pressioni dei gruppi industriali sul governo sono state decisive.
È in questo contesto che va letta la conferenza stampa del 24 luglio in cui il primo ministro Shinzo Abe ha annunciato la svolta rispetto alle politiche tradizionali che prevedevano solo visti per lavoratori altamente qualificati. Resta comunque escluso il diritto al ricongiungimento familiare e i permessi di lavoro nei settori aperti saranno limitati a 5 anni.
I serbatoi a cui il Giappone ha attinto fino ad oggi per coprire le lacune di forza lavoro sono stati i «nikkeijin», i discendenti della diaspora, negli anni '90 e i tirocinanti o studenti stranieri, a cui viene concesso di lavorare part-time, più di recente. Nei «conbini», i supermercati aperti 24 ore, di Tokyo e delle altre grandi città è frequente incontrare questi ultimi alla cassa. I nikkeijin invece sono i discendenti di emigrati giapponesi, stabilitisi principalmente in America latina, a cui è stato concesso di tornare nella nazione dei propri avi per lavorare, soprattutto nel settore manifatturiero.
I primi immigrati a fare la loro comparsa in Giappone a fine anni '70 furono in maggioranza donne in negozi, ristoranti, bar e quartieri a luci rosse, che solo nel 1988 furono sorpassate dagli uomini. La prima riforma che regolò un accesso parziale al «Paese del Sol levante» è del 1990 quando furono creati i visti di «tirocinio tecnico». Originariamente pensati come un mezzo di sviluppo in favore dei Paesi poveri, si sono spesso trasformati in posti di lavoro altamente precari, mal pagati e in pessime condizioni di sicurezza, senza nessun tipo di attività formativa. E sono oggetto di una dura critica da parte delle organizzazioni sindacali e di categoria.
«È necessario creare un ambiente che permetta agli stranieri di vivere in confortevolmente in Giappone» ha dichiarato la ministra della Giustizia, Yoko Kamikawa. Iniziare dalla tutela dei diritti dei più deboli potrebbe essere un buon punto di partenza.
Stefano Lippiello
(Il Manifesto 18 agosto)
Gli stranieri residenti in Giappone al momento rappresentano circa il 2 per cento della popolazione, uno dei valori più bassi nei Paesi Osce. I governi nipponici nel dopoguerra hanno perseguito una politica di chiusura all'immigrazione. Al centro delle loro politiche c'è sempre stata la preoccupazione per l'omogeneità etnica e culturale del Paese, che nel dibattito intellettuale viene vista come necessario presupposto per la fedeltà incondizionata alle autorità e per l'appartenenza alla grande famiglia giapponese con a capo l'imperatore, come ricostruisce il sociologo Eiji Oguma.
Ora però queste ragioni sono entrate in crisi. La causa è la doppia pressione del calo demografico e dell'aumento della domanda di lavoro, soprattutto ai livelli più bassi della manodopera. Negli ultimi cinque anni la forza lavoro giapponese è calata di circa 4 milioni di persone per l'invecchiamento della popolazione, mentre nello stesso periodo l'occupazione è aumentata di oltre 2 milioni e 700 mila posti. Tre sono i settori principalmente coinvolti: agricoltura, assistenza sanitaria e agli anziani, e infine costruzioni. Le Olimpiadi di Tokyo 2020 si avvicinano e c'è molto da costruire, l'edilizia è uno settori più colpiti dalla carenza di manodopera. Le pressioni dei gruppi industriali sul governo sono state decisive.
È in questo contesto che va letta la conferenza stampa del 24 luglio in cui il primo ministro Shinzo Abe ha annunciato la svolta rispetto alle politiche tradizionali che prevedevano solo visti per lavoratori altamente qualificati. Resta comunque escluso il diritto al ricongiungimento familiare e i permessi di lavoro nei settori aperti saranno limitati a 5 anni.
I serbatoi a cui il Giappone ha attinto fino ad oggi per coprire le lacune di forza lavoro sono stati i «nikkeijin», i discendenti della diaspora, negli anni '90 e i tirocinanti o studenti stranieri, a cui viene concesso di lavorare part-time, più di recente. Nei «conbini», i supermercati aperti 24 ore, di Tokyo e delle altre grandi città è frequente incontrare questi ultimi alla cassa. I nikkeijin invece sono i discendenti di emigrati giapponesi, stabilitisi principalmente in America latina, a cui è stato concesso di tornare nella nazione dei propri avi per lavorare, soprattutto nel settore manifatturiero.
I primi immigrati a fare la loro comparsa in Giappone a fine anni '70 furono in maggioranza donne in negozi, ristoranti, bar e quartieri a luci rosse, che solo nel 1988 furono sorpassate dagli uomini. La prima riforma che regolò un accesso parziale al «Paese del Sol levante» è del 1990 quando furono creati i visti di «tirocinio tecnico». Originariamente pensati come un mezzo di sviluppo in favore dei Paesi poveri, si sono spesso trasformati in posti di lavoro altamente precari, mal pagati e in pessime condizioni di sicurezza, senza nessun tipo di attività formativa. E sono oggetto di una dura critica da parte delle organizzazioni sindacali e di categoria.
«È necessario creare un ambiente che permetta agli stranieri di vivere in confortevolmente in Giappone» ha dichiarato la ministra della Giustizia, Yoko Kamikawa. Iniziare dalla tutela dei diritti dei più deboli potrebbe essere un buon punto di partenza.
Stefano Lippiello
(Il Manifesto 18 agosto)