Le stragi dei Rohingya
BANGKOK. Un rapporto insolitamente crudo delle Nazioni Unite ha annunciato un'inchiesta per perseguire i vertici militari della Birmania e portarli fino a un tribunale penale internazionale: l'accusa nei confronti dei generali è quella di aver orchestrato un genocidio ai danni della minoranza musulmana dei Rohingya. Il report biasima anche la leader civile e premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi: non avrebbe usato la sua " autorità morale" per prevenire le violenze contro la minoranza nello Stato dell'Arakan.
L'atto d'accusa della missione Onu arriva a un anno quasi esatto dall'ultima sanguinosa repressione della comunità musulmana birmana: migliaia di persone sono state costrette con saccheggi, incendi di interi villaggi e stupri a fuggire nel confinante Bangladesh, dove oggi più di 700mila uomini, donne e bambini vivono nel fango dei monsoni in campi provvisori di tende. Gli investigatori puntano il dito sul numero uno dell'esercito, il comandante 62enne Min Aung Hlaing, e chiedono di deferirlo al Tribunale penale internazionale dell'Aia. Ma spiegano che è stato il governo nel suo insieme « attraverso le sue azioni e omissioni » a «contribuire a crimini atroci». La Lady birmana si trova così coinvolta in un potenziale processo internazionale per crimini contro l'umanità, in cui i principali imputati sarebbero - se mai si arrivasse a processo - i militari che per anni l'hanno tenuta prigioniera.
Nonostante i lunghi decenni passati da simbolo dei diritti umani e della tolleranza, i commissari guidati dall'avvocato per i Diritti umani Marzuki Darusman, non risparmiano a Suu Kyi l'accusa di aver chiuso gli occhi non soltanto sulle atrocità commesse contro i Rohingya, ma anche contro numerose minoranze cristiane e animiste.
«La necessità militare - sostiene il rapporto - non giustificherà mai l'uccisione indiscriminata, lo stupro di gruppo delle donne, l'assalto di bambini e la distruzione di interi villaggi. Le tattiche dei Tatmadaw (i soldati di etnia birmana, ndr) sono del tutto sproporzionate rispetto alle attuali minacce alla sicurezza».
Governo e soldati si sono difesi citando la necessità di dare una «risposta alle sfide di sicurezza negli Stati con popolazioni minoritarie »: una «risposta esagerata » come ha detto l'organismo Onu, che ora dovrà provare con fatti incontrovertibili le sue accuse man mano che il rapporto prenderà la strada che potrebbe portarlo ad essere discusso all'Assemblea generale. In passato Cina e Russia hanno più volte evitato che venissero messi sotto inchiesta i generali che detenevano Suu Kyi e torturavano migliaia di dissidenti in Birmania: allora si parlò di "non interferenza interna". Ma se il procedimento internazionale per perseguire le stragi dei Rohingya andrà avanti, gli ideali pacifisti che Aung San Suu Kyi ha difeso per anni riceverebbero un colpo durissimo. La reputazione della premio Nobel è già stata duramente compromessa dalla vicenda. Ad accomunare una larga percentuale dei buddhisti birmani - che siano generali o gente del popolo - resta però la paura di aprire le frontiere ai Rohingya: benché vivano in Birmania da decenni sono considerati " immigrati illegali", privi di cittadinanza e bensì portatori di una fede contraria ai principi religiosi birmani.
Raimondo Bultrini
(la Repubblica 28 agosto)
BANGKOK. Un rapporto insolitamente crudo delle Nazioni Unite ha annunciato un'inchiesta per perseguire i vertici militari della Birmania e portarli fino a un tribunale penale internazionale: l'accusa nei confronti dei generali è quella di aver orchestrato un genocidio ai danni della minoranza musulmana dei Rohingya. Il report biasima anche la leader civile e premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi: non avrebbe usato la sua " autorità morale" per prevenire le violenze contro la minoranza nello Stato dell'Arakan.
L'atto d'accusa della missione Onu arriva a un anno quasi esatto dall'ultima sanguinosa repressione della comunità musulmana birmana: migliaia di persone sono state costrette con saccheggi, incendi di interi villaggi e stupri a fuggire nel confinante Bangladesh, dove oggi più di 700mila uomini, donne e bambini vivono nel fango dei monsoni in campi provvisori di tende. Gli investigatori puntano il dito sul numero uno dell'esercito, il comandante 62enne Min Aung Hlaing, e chiedono di deferirlo al Tribunale penale internazionale dell'Aia. Ma spiegano che è stato il governo nel suo insieme « attraverso le sue azioni e omissioni » a «contribuire a crimini atroci». La Lady birmana si trova così coinvolta in un potenziale processo internazionale per crimini contro l'umanità, in cui i principali imputati sarebbero - se mai si arrivasse a processo - i militari che per anni l'hanno tenuta prigioniera.
Nonostante i lunghi decenni passati da simbolo dei diritti umani e della tolleranza, i commissari guidati dall'avvocato per i Diritti umani Marzuki Darusman, non risparmiano a Suu Kyi l'accusa di aver chiuso gli occhi non soltanto sulle atrocità commesse contro i Rohingya, ma anche contro numerose minoranze cristiane e animiste.
«La necessità militare - sostiene il rapporto - non giustificherà mai l'uccisione indiscriminata, lo stupro di gruppo delle donne, l'assalto di bambini e la distruzione di interi villaggi. Le tattiche dei Tatmadaw (i soldati di etnia birmana, ndr) sono del tutto sproporzionate rispetto alle attuali minacce alla sicurezza».
Governo e soldati si sono difesi citando la necessità di dare una «risposta alle sfide di sicurezza negli Stati con popolazioni minoritarie »: una «risposta esagerata » come ha detto l'organismo Onu, che ora dovrà provare con fatti incontrovertibili le sue accuse man mano che il rapporto prenderà la strada che potrebbe portarlo ad essere discusso all'Assemblea generale. In passato Cina e Russia hanno più volte evitato che venissero messi sotto inchiesta i generali che detenevano Suu Kyi e torturavano migliaia di dissidenti in Birmania: allora si parlò di "non interferenza interna". Ma se il procedimento internazionale per perseguire le stragi dei Rohingya andrà avanti, gli ideali pacifisti che Aung San Suu Kyi ha difeso per anni riceverebbero un colpo durissimo. La reputazione della premio Nobel è già stata duramente compromessa dalla vicenda. Ad accomunare una larga percentuale dei buddhisti birmani - che siano generali o gente del popolo - resta però la paura di aprire le frontiere ai Rohingya: benché vivano in Birmania da decenni sono considerati " immigrati illegali", privi di cittadinanza e bensì portatori di una fede contraria ai principi religiosi birmani.
Raimondo Bultrini
(la Repubblica 28 agosto)