LA PRIGIONE DI APPENDINO
"Dai Giochi alla Tav, la sindaca è incapace di scegliere: e resta ostaggio della sua stessa maggioranza"
Alla fine la valanga olimpica ha travolto Chiara Appendino e con lei, inevitabilmente, la città di cui è sindaca. I Giochi del 2026, se mai saranno italiani, si svolgeranno a est, sulle altre Alpi. E i Cinque stelle, se mai si chiameranno ancora così, staranno a guardare.
A vederla sotto molti punti di vista, l'esclusione di Torino dalla candidatura italiana è un vero disastro. Non tanto per la manifestazione in sé (in fondo la città l'ha ospitata egregiamente nel 2006), quanto per la somma di errori, supponenze e leggerezze che ha costruito nei mesi questo inevitabile risultato. E che ora lo consegna a una città improvvisamente orfana delle certezze recenti, come se tutto fosse tornato indietro di quarant'anni quando per centinaia di migliaia di persone Torino era un luogo di lavoro dove faticare, ritirare la busta paga e da cui scappare appena possibile. Un posto isolato contro il muro delle Alpi dove ci si va per necessità e non ci si passa certo per diletto. Così sarebbe da ingenui pensare che il fallimento olimpico sia un problema che riguardi solo i grillini. La valanga a cinque cerchi, al contrario, rischia di travolgere la città e quanto di buono è stato fatto in questi anni per riportarla all'onor del mondo.
Non è certo Chiara Appendino l'unica responsabile del declino di Torino ma purtroppo ne è l'immagine vivente. E quando domenica sera, nel palasport colmo di tifosi di pallavolo, sono partiti i fischi contro la prima cittadina, nessuno probabilmente ce l'aveva con lei. Ma con l'idea di città che si porta dietro, con il minimalismo pauperista che rappresenta, con l'incapacità di scegliere, con la furbizia di chi fa tre parti in commedia sperando di galleggiare. Di chi pensa che si possa contemporaneamente andare d'accordo con gli operai dei cantieri e con i centri sociali che li assaltano a colpi di molotov.
Sul dossier olimpico, il principale errore è stato proprio la mancanza di coerenza. Anche le panchine dei parchi pubblici a Torino sapevano che Chiara Appendino considerava i Giochi del 2006 un vergognoso spreco di denaro. Ci aveva fatto una parte della campagna elettorale. E molti torinesi, che evidentemente non sopportavano più l'idea di essere governati ancora dal centrosinistra, si erano turati il naso, erano passati sopra quell'attacco ideologico a un evento cui avevano partecipato esibendo orgogliosi la loro divisa da volontari. Tanto era acqua passata. Quando il tema è tornato di attualità con la candidatura italiana al 2026, Appendino ha tentato lo slalom. Non il superG, quello con le porte larghe. No, proprio quello dei pali stretti che se sbagli la curva ti finiscono in faccia. Com'è puntualmente avvenuto quando una parte della maggioranza grillina del Consiglio comunale le ha ricordato le posizioni della campagna elettorale e ha annunciato il voto contrario. Appendino non ha saputo a quel punto imporsi. Per tirare dritto avrebbe dovuto metterci una buona dose di cinismo perché sulle Olimpiadi la dissidente (rispetto alle sue stesse posizioni) era lei. Appendino non è Pizzarotti. Ma così si è consegnata alla sua maggioranza, finendo per affidare le scelte strategiche della città alle fumose riunioni dei centri sociali torinesi, che hanno i loro rappresentanti in Consiglio e che possono ricattarla ad ogni seduta. Caso unico in Italia di sindaco ostaggio della sua maggioranza, ciò che non si vedeva dalla Prima Repubblica. Il tutto condito da chiamate a Torino di Di Maio e Grillo perché tenessero a bada i locali. Da minacce di dimissioni, da giornate trascorse lontano dal Palazzo per ripicca, da interviste rifatte tre, quattro volte come gli antichi sindaci democristiani che avevano un'attenzione maniacale per le virgole per poter nascondere la sostanza.
Il resto è cronaca di questi giorni. Grillo e Di Maio l'hanno lasciata da sola e i Giochi sono volati altrove. Poi, quando le cose cominciano a girare storto, tutto finisce nel conto, anche quel che magari sarebbe accaduto lo stesso. La parola declino circola con insistenza in città, gli uffici comunali non riescono ad organizzare l'anagrafe, le code degli studenti in attesa dell'abbonamento del tram occupano la stazione di Porta Nuova. Un asilo pericolante nel centro storico costringe 150 bambini al trasloco. Lei deve scusarsi in Consiglio comunale. La città assiste sbigottita. La sindaca acqua e sapone che aveva convinto promettendo una Torino smart, a misura di giovani, piena di opportunità di sviluppo, si trova a governare un posto lasciato in un angolo dove il colpo di grazia arriverà nelle prossime settimane quando il ministro grillino dei trasporti annuncerà che la Torino-Lione deve chiudere i cantieri perché così hanno deciso un gruppo di valsusini alleati dei centri sociali torinesi. E così, incredibilmente, anche per andare in Francia bisognerà passare da Milano. Caput mundi.
Paolo Griseri
(la Repubblica 2 ottobre)