lunedì 15 ottobre 2018

Osservatorio laicità
Ripartire dall'art. 3


La migrazione per motivi economici è sempre stata la normalità. In Italia lo sappiamo bene se pensiamo agli oltre 60 milioni di oriundi sparsi per il mondo e ai circa 5 milioni di cittadini italiani che vivono all'estero per motivi di lavoro. Tuttavia, dal 2002 la migrazione economica nel nostro Paese è considerata un reato. Chi entra in Italia fuggendo da situazioni di povertà per tentare un futuro migliore si "macchia" immediatamente del reato di clandestinità. La stortura è stata creata con la legge Bossi-Fini. Inasprendo la precedente legge Turco-Napolitano sull'immigrazione del 1998, essa ha introdotto tra le altre cose la possibilità dell'espulsione immediata delle persone prive di permesso di soggiorno, subordinato all'esistenza di un contratto di lavoro. Grazie a questo "capolavoro" di umanità, lo straniero in Italia non è più considerato in quanto persona ma unicamente attraverso un filtro utilitaristico. Per il legislatore e i partiti di governo, egli ha un "valore" solo ai fini della produttività e del profitto. Ovviamente questa impostazione ha contribuito a trasformare da un lato gli immigrati in persone ricattabili da parte di imprenditori disonesti - il reato di clandestinità è la fonte primaria di manodopera per la criminalità organizzata -, dall'altro, li ha spinti ad accettare di lavorare a qualsiasi condizione intaccando in profondità la forza contrattuale dell'intera classe operaia. La perdita del lavoro per uno straniero residente farebbe infatti scattare quella del permesso di soggiorno. E ancora. La subordinazione del permesso di soggiorno al contratto di lavoro ha in pratica chiuso qualsiasi possibilità di accesso regolare in Italia, obbligando molti dei migranti a mentire per ottenere la protezione umanitaria o lo status di rifugiato. E questo è oggi l'unico modo per ottenere il permesso di soggiorno nel nostro Paese. Se invece, per esempio, un cittadino nigeriano potesse andare al consolato italiano a Lagos e chiedere il visto per l'Italia, pagando una sorta di caparra per l'eventuale viaggio di ritorno, dopo di che se non ce la fa a trovare un lavoro entro un tot di tempo torna indietro, come è sempre successo, tante tragedie e problemi di vario genere non sarebbero accaduti. Non solo il migrante economico spenderebbe molto meno e sarebbe sottoposto a un primo controllo nel suo Paese d'origine, ma soprattutto non sarebbe costretto ad arrivare attraverso gli sbarchi gestiti dalla criminalità. Sta qui, in questo perverso sistema di gestione dei flussi migratori la causa prima del profondo inevitabile senso di insicurezza che si è diffuso nella nostra società. Provocando effetti devastanti sul tessuto sociale e negando in origine qualsiasi possibilità di integrazione e quindi di crescita, in termini di civiltà ma anche economica, del nostro Paese. Creata a tavolino l'emergenza, costruito in laboratorio lo sconosciuto, il nemico, l'usurpatore di lavoro, il privilegiato per cui lo Stato spende 35 euro è quasi naturale che prima o poi spunti fuori dal cilindro di governo un Salvini al ministero dell'interno.
Come disinnescare questa bomba a orologeria? Una soluzione semplice ma efficace l'ha proposta il sociologo dell'Università di Padova Stefano Allievi e penso che valga la pena rilanciarla: «È stato creato un sistema che genera odio nei confronti dei migranti da parte delle classi più disagiate» spiega. «I famosi 35 euro al giorno per migrante che si spendono per i centri di accoglienza (creando comunque posti di lavoro) sono un sussidio riconosciuto solo a poche altre categorie in difficoltà sociale. Bisogna uscire dall'idea di offerta di aiuto specifica per il migrante. Il richiedente asilo va aiutato in quanto persona in difficoltà al pari di altre persone in difficoltà. Va introdotto un nuovo welfare, un welfare universale uguale per tutti». "Senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali"…
Federico Tulli

(Adista n. 27, 21 luglio 2018)