UNA ESPERIENZA DI DIO LIBERATO DAL DOGMA
Eppure noi esseri umani non possiamo conoscere Dio; possiamo solo fare esperienza di Dio. Così non siamo in grado di dire che Dio sia qualcosa. Quando parliamo di Dio, possiamo solo dire che l'esperienza di Dio è «come se...», aggiungendo qualsiasi parola umana che possiamo trovare per esprimere la nostra esperienza. Ma, come ha notato Katie Ford, noi cristiani abbiamo avuto la tendenza a sostituire «come se» con «è». Noi abbiamo preteso di poter veramente dire «Dio è...», riempiendo con arroganza lo spazio vuoto con i nostri concetti.
Vivo in questo momento all'interno di una forte esperienza del divino, del sacro. Chiamo il contenuto di questa speranza Dio. Sono certo che sia realtà. Il Dio che la mia vita ha incontrato e con cui è entrata in rapporto è molto profondamente presente in me nel ritratto dell'uomo chiamato Gesù di Nazareth delineato dalla Chiesa primitiva. Gesù così diventa per me la porta di accesso dentro questo Dio. La sua vita riflette la vita che io chiamo Dio. Il suo amore riflette l'amore che io chiamo Dio. Il suo essere rivela il Fondamento dell'essere che io chiamo Dio. Il Dio che ho incontrato in Gesù mi chiama a vivere pienamente, ad amare generosamente e a essere tutto ciò che io posso essere. Quando faccio tutte queste cose, credo di rendere Dio visibile e reale per gli altri.
Non faccio questa esperienza di Dio semplicemente come individuo, ma come parte di una comunità. La Chiesa è per me una comunità di persone unite dalla loro volontà di viaggiare insieme verso il significato e il mistero di questo Dio. Questo viaggio deve portarci lontano dal luogo in cui la salvaguardia dell'istituzione determina la nostra testimonianza e i nostri valori ultimi, e nel quale noi affermiamo che abbiamo definito o potremmo definire Dio con le nostre parole ecclesiastiche o dottrinali. Abbiamo vissuto in questo luogo così a lungo da non renderci conto che perfino la nostra falda acquifera è stata inquinata da crescenti maree di negatività, sterilità, ignoranza e oppressione. Non siamo in grado di capire che il terreno religioso in cui le nostre radici sono piantate non è più un posto vivibile; è diventato un luogo dove rimanere significa morire.
Queste sono le percezioni che mi spingono ad agire. Credo di dover ora abbandonare i compromessi politici ed etici che hanno corroso la fede in questo Gesù. Credo di dover abbandonare questa teologia soffocante, la struttura patriarcale, i pregiudizi radicati che si basano su una qualunque convenzione della nostra umanità, come il colore della pelle, il sesso o l'orientamento sessuale. Devo abbandonare la mentalità che incoraggia a pensare che le nostre dottrine siano inalterabili o che i nostri testi sacri non contengano errori. Devo abbandonare il Dio dei miracoli e della magia, il Dio del potere soprannaturale e invasivo. Devo abbandonare le promesse di certezza, l'illusione di possedere la vera fede, le eccessive proclamazioni di essere il destinatario di una rivelazione incontestabile, e perfino il nevrotico desiderio religioso di sapere di essere nel giusto. Ma non potrò mai abbandonare l'esperienza di Dio, né potrò mai allontanarmi da quella porta di accesso al divino che io credo di aver trovato in colui che chiamo Cristo e che riconosco come «mio Signore».
Non affermerò mai più che il mio Cristo è l'unica strada per arrivare a Dio, poiché ciò sarebbe un atto estremo di umana follia. Dirò, comunque, che Cristo è l'unica strada, per me, poiché questa è la mia esperienza.
Eppure noi esseri umani non possiamo conoscere Dio; possiamo solo fare esperienza di Dio. Così non siamo in grado di dire che Dio sia qualcosa. Quando parliamo di Dio, possiamo solo dire che l'esperienza di Dio è «come se...», aggiungendo qualsiasi parola umana che possiamo trovare per esprimere la nostra esperienza. Ma, come ha notato Katie Ford, noi cristiani abbiamo avuto la tendenza a sostituire «come se» con «è». Noi abbiamo preteso di poter veramente dire «Dio è...», riempiendo con arroganza lo spazio vuoto con i nostri concetti.
Vivo in questo momento all'interno di una forte esperienza del divino, del sacro. Chiamo il contenuto di questa speranza Dio. Sono certo che sia realtà. Il Dio che la mia vita ha incontrato e con cui è entrata in rapporto è molto profondamente presente in me nel ritratto dell'uomo chiamato Gesù di Nazareth delineato dalla Chiesa primitiva. Gesù così diventa per me la porta di accesso dentro questo Dio. La sua vita riflette la vita che io chiamo Dio. Il suo amore riflette l'amore che io chiamo Dio. Il suo essere rivela il Fondamento dell'essere che io chiamo Dio. Il Dio che ho incontrato in Gesù mi chiama a vivere pienamente, ad amare generosamente e a essere tutto ciò che io posso essere. Quando faccio tutte queste cose, credo di rendere Dio visibile e reale per gli altri.
Non faccio questa esperienza di Dio semplicemente come individuo, ma come parte di una comunità. La Chiesa è per me una comunità di persone unite dalla loro volontà di viaggiare insieme verso il significato e il mistero di questo Dio. Questo viaggio deve portarci lontano dal luogo in cui la salvaguardia dell'istituzione determina la nostra testimonianza e i nostri valori ultimi, e nel quale noi affermiamo che abbiamo definito o potremmo definire Dio con le nostre parole ecclesiastiche o dottrinali. Abbiamo vissuto in questo luogo così a lungo da non renderci conto che perfino la nostra falda acquifera è stata inquinata da crescenti maree di negatività, sterilità, ignoranza e oppressione. Non siamo in grado di capire che il terreno religioso in cui le nostre radici sono piantate non è più un posto vivibile; è diventato un luogo dove rimanere significa morire.
Queste sono le percezioni che mi spingono ad agire. Credo di dover ora abbandonare i compromessi politici ed etici che hanno corroso la fede in questo Gesù. Credo di dover abbandonare questa teologia soffocante, la struttura patriarcale, i pregiudizi radicati che si basano su una qualunque convenzione della nostra umanità, come il colore della pelle, il sesso o l'orientamento sessuale. Devo abbandonare la mentalità che incoraggia a pensare che le nostre dottrine siano inalterabili o che i nostri testi sacri non contengano errori. Devo abbandonare il Dio dei miracoli e della magia, il Dio del potere soprannaturale e invasivo. Devo abbandonare le promesse di certezza, l'illusione di possedere la vera fede, le eccessive proclamazioni di essere il destinatario di una rivelazione incontestabile, e perfino il nevrotico desiderio religioso di sapere di essere nel giusto. Ma non potrò mai abbandonare l'esperienza di Dio, né potrò mai allontanarmi da quella porta di accesso al divino che io credo di aver trovato in colui che chiamo Cristo e che riconosco come «mio Signore».
Non affermerò mai più che il mio Cristo è l'unica strada per arrivare a Dio, poiché ciò sarebbe un atto estremo di umana follia. Dirò, comunque, che Cristo è l'unica strada, per me, poiché questa è la mia esperienza.
John S. Spong, Un cristianesimo nuovo, Massari Editore, pag. 339