mercoledì 19 dicembre 2018

I VELATI PROGETTI DELLE SIRIANE IN TURCHIA

Ci sono quasi solo donne velate a Gaziantep, nel sud della Turchia, a pochi chilometri dal confine con la Siria. Che si tratti di rifugiare giunte dall'altra parte di una frontiera insanguinata da oltre sette anni di guerra o delle abitanti dell'ultima città turca prima dell'orrore siriano non fa molta differenza. Ma sarebbe sbagliato pensare che le une e le altre siano sottomesse. Tutt'altro. Qui il velo - a cavallo della linea di confine, dunque non in una metropoli moderna come Istanbul - non è un fatto di moda né di appartenenza politica e religiosa, ma un'abitudine che rende queste donne molto simili alle nostre contadine. Ma a parlarci insieme, che energia e spigliatezza! Dietro quel velo ci sono tanta forza e determinazione nel farsi ascoltare e valere.
In uno dei vari centri aperti in città con i fondi inviati dall'Unione europea ad Ankara, parte di quei famosi 6 miliardi di euro negoziati per aiutare i profughi, incontriamo Maalem Abdul Razak, 26 anni, di Aleppo. Indossa un copricapo beige su un abito verde. «Voglio costituire un'associazione di donne siriane e turche per rafforzarle nelle loro richieste. Ho già il nome, Rosmarino, perché è una pianta piccola ma robusta». A che cosa servirà Rosmarino? «A fare rispettare i nostri diritti. Per esempio: in Siria i divorzi oggi sono tantissimi, o almeno le donne vorrebbero così, perché una cultura fortemente maschilista impedisce alle mogli, ormai stanche del matrimonio per i motivi più diversi, di fare una scelta giudicata troppo radicale nella nostra società. In questo gruppo potremmo invece essere riconosciute e prendere decisioni libere: se continuare con quell'uomo oppure no, come educate i figli e altro. Penso anzi di poterne fare un lavoro, e con un po' di fondi di lanciarlo in modo sostenibile».
In un altro centro chiamato Sada ("voce"), le profughe dalla Siria vengono addestrate in vari settori (cucina, industria, scuola) in modo da farne lavoratrici specializzate. A parlare con l'ospite si alza Sophia Mustafa, anche lei della vicina Aleppo, avvolta in una tunica marrone: il marito morto in battaglia, la fuga dal Paese, due figli piccoli da mantenere e poi da sostenere psicologicamente per i traumi sofferti. Sophia descrive la sua storia drammatica in quattro parole: «Là avevamo perso tutto». Poi spiega come si è riscattata: «Qui ho conosciuto altre donne, ci siamo unite, ho aperto lo stesso tipo di attività che avevo a casa: un negozio di scarpe. Le nostre, siriane, sono particolari, molto morbide. Ora guardiamo avanti. La lotta continua».
Non sempre il desiderio di aprirsi corrisponde all'abbandonare una timidezza quasi atavica. Nell'aula dove si insegna il turco, noto in seconda fila una ragazza. Si intravedono, sotto l'abito nero che la veste del tutto, le fattezze bellissime del viso dietro a due occhi verdi che irradiano luce. «Hosgeldiniz», dice il gruppo al giornalista in visita (benvenuto). «Hos bulduk», (sono onorato). Cerco di osservarla per un solo secondo in più, catturato da quello sguardo. È un riflesso quasi automatico, che forse sarà percepito come sfrontatezza occidentale, e subito me ne vergogno. Eppure sono allenato a non indugiare troppo nel contatto con occhi femminili, in questa parte di mondo. Troppo tardi. Lei abbassa il capo, e tira il velo ancora più su.
Marco Ansaldi

Marco Ansaldo, 59 anni, è il corrispondente di Repubblica a Istanbul per Turchia e Medio Oriente.
(D la Repubblica 15 dicembre 2018)