Lasciamo che i ragazzi scrivano tutti insieme
In un tempo in cui le imprese comunitarie sono guardate con sospetto, la pratica del testo collettivo può combattere le disuguaglianze. Sin dalla scuola.
Franco Lorenzoni
Cara
professoressa (e caro professore), nessuno sceglie dove nascere, in
quale famiglia o continente atterrare. E tutta la vita, a partire dai
primi anni, proviamo ad adattarci, a subire o ribellarci a quella
condizione data. Chiunque si sia trovato a insegnare in classi che
sempre più si presentano come specchio di un pianeta frammentato e di
una società con crescenti divaricazioni sociali, credo abbia provato
almeno un momento lo sconcerto di avere di fronte a sé vite ineguali
verso le quali, come insegnanti, dovremmo sentire la spinta etica a fare
ogni sforzo possibile per fornire conoscenze e strumenti capaci di
attenuare almeno un po’ lo scandalo di diversità che precipitano nella
discriminazione.
Ci vuole grande coraggio e cultura e convinzione per
essere all’altezza dei nostri compiti perché si tratta di offrire e
costruire, spesso con grande fatica, la più ampia libertà di scelta
possibile per tutti, in un mondo in cui l’esclusione cresce ogni giorno
di più. Vivendo in un clima spesso ostile, fa bene tornare a Lettera a
una professoressa perché quella denuncia rovente contiene una visione
radicale dell’educazione, che credo abbia ancora molto da dire a chi
pensa l’arte e la cultura come ribellione alla dittatura del presente.
Nel
suo ultimo anno di vita don Milani sperimentò un modo particolare di
dare voce pubblica agli esclusi. Per una volta, infatti, a denunciare il
classismo violento della nostra scuola non furono studi o saggi
sociologici, ma le vittime stesse di quella strage di intelligenze che,
in pieno boom economico, portava ad espellere da ogni percorso formativo
oltre la metà dei figli di contadini ed operai. La preoccupazione
maggiore di don Lorenzo, nelle sei settimane che separarono l’uscita
della Lettera dalla sua morte, fu che fosse riconosciuta come un’
opera collettiva .
Il
mezzo della scrittura collettiva, infatti, incarnava il messaggio. O,
meglio, il messaggio era nel modo con cui era stato forgiato il mezzo.
In un tempo in cui ogni impresa comunitaria è guardata con sospetto
vorrei consigliare di sperimentare in classe, almeno una volta, la
scrittura collettiva dandoci tutto il tempo che occorre, non solo perché
è uno strumento efficace di affinamento della lingua, ma perché
necessita di un ascolto reciproco attento, in primo luogo da parte di
noi insegnanti. Dà inoltre voce e aiuta ogni allievo a sostare attorno
alle domande, approfondire i concetti, mediare tra il proprio punto di
vista e quello degli altri e imparare ad argomentare dando respiro al
proprio pensiero. La sofferenza infantile si annida in ogni segmento
della società e per affrontare il disagio crescente credo dobbiamo
cercare sostegno nella bellezza. È solo nel corpo a corpo con un testo,
un teorema o una pittura che possiamo appassionare i più piccoli alla
fatica dell’apprendere e al piacere del farlo insieme tra diversi,
liberandoci da semplificazioni avvilenti. Ma per far questo dobbiamo
andare controvento, ridurre gli argomenti e proporre pratiche di ricerca
e di studio necessariamente lente, in cui si discute ogni cosa e si fa
del dialogo l’architrave del processo educativo. Due anni fa, nel
comporre un testo collettivo sulla figura di Gandhi, una bambina in
quinta elementare a un tratto ha detto: «Gandhi non dava ragione a uno,
ma a due». Una frase che ci ha fatto riflettere a lungo e che trovo ci
avvicini al nocciolo del pensiero nonviolento. Sono intuizioni come
queste che dimostrano quanta ricchezza si possa ricevere dai più piccoli
quando diamo spazio all’affiorare dei loro pensieri più intimi e
profondi.
C’è
un nemico insidioso che non dobbiamo mai stancarci di contrastare: la
crescente alienazione e allontanamento di troppi giovani dal desiderio e
dalla fatica del conoscere, che aumenta con l’età e porta alla tragedia
dei due milioni e mezzo di ragazzi che, pur non lavorando, hanno smesso
di studiare.
Uno
scandalo che dovrebbe tenerci svegli la notte perché, se in così tanti
perdono il piacere e il senso dello studio, dobbiamo guardarci allo
specchio e riconoscere le nostre responsabilità. Inoltre, in diverse
città sta aumentando la tendenza di numerose famiglie ad abbandonare
scuole frequentate da un numero crescente di figli di immigrati, dando
luogo a quella che Vinicio Ongini chiama fuga bianca.
I
dati delle prove Invalsi ogni anno testimoniano in modo inequivocabile
la presenza nelle nostre scuole di classi ghetto, in cui vengono
ammassati giovani immigrati di prima e seconda generazione insieme a
ragazzi che hanno altre difficoltà e problemi. Nessun ministro ha avuto
sinora il coraggio di affrontare la questione, ma noi non possiamo
tollerare ed adeguarci a pratiche che alimentano forme di apartheid
educativa, senza tradire l’articolo 3 della Costituzione, che è il
nostro testo collettivo di riferimento. Se l’arte del convivere e la
cura del pianeta sono lo sfondo di ogni educazione che guardi al futuro,
la sfida sta nel dimostrare che nelle classi disomogenee si impara di
più e meglio.
«Il
problema degli altri è uguale al mio», ricordava con i suoi ragazzi il
Priore. «Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è
l’avarizia ».
L’autore è stato maestro elementare per 40 anni. Il suo ultimo libro è "I bambini ci guardano" (Sellerio).
La Repubblica 13/9