mercoledì 27 novembre 2019

A BEIRUT LE DONNE SFIDANO IL CLERO

Lo scorso 5 novembre ha segnato il trentesimo anniversario dell'entrata in vigore degli Accordi di Taif che posero fine alla lunga guerra civile libanese imponendo una rigida spartizione delle cariche istituzionali fra gli esponenti politici sunniti, sciiti e cristiani, ovvero i rappresentanti delle tre principali confessioni del paese. Oltre a questa imposizione, i libanesi dovettero mandare giù l'amaro boccone del "protettorato" siriano, terminato nel 2005 con la cosiddetta rivoluzione dei Cedri innescata dall'attentato dinamitardo che fece saltare in aria, lungo la Corniche di Beirut, l'allora premier Rafik Hariri (padre di Saad), la sua scorta e numerosi passanti. I sospetti caddero immediatamente su Hezbollah, ma non ci fu la volontà di assicurare i colpevoli alla giustizia per non danneggiare il fragile equilibrio politico libanese. Si tratta di un compromesso, quello di Taif, che ora la maggior parte dei cittadini libanesi, senza distinzione di età, genere, ideologia e religione, ritiene non solo obsoleto ma anche un freno allo sviluppo socio-economico del paese, tra i più corrotti del pianeta e da tempo sull'orlo della bancarotta.
Per questa ragione le proteste di massa iniziate alla fine di ottobre in tutto il Libano non si sono fermate nemmeno in seguito alle dimissioni da primo ministro del rampollo sunnita Saad Hariri, spalleggiato dall'Arabia Saudita. Dal nord al sud, sia nelle roccaforti sunnite come Tripoli, sia in quelle sciite sotto il controllo del partito armato Hezbollah - longa manus dell'Iran sul Mediterraneo - sta avvenendo per la prima volta una rivolta della cittadinanza, che molti analisti già definiscono rivoluzione, al grido di "Tutti significa tutti". I libanesi vogliono cioè che tutti i politici finora al governo e tutti i parlamentari lascino le proprie poltrone a una schiera di tecnici in grado di arrestare la corruzione dilagante e, di conseguenza, creare delle infrastrutture efficienti e migliorare i servizi pubblici di fatto inesistenti.
La gente non ne può più di pagare tasse sempre più esose a fronte di una costante degenerazione della qualità della vita causata da disoccupazione, carovita e mancanza di beni primari come ospedali pubblici, acqua potabile, reti fognarie ed elettricità. Anche nella capitale durante il giorno si verificano numerosi blackout e i cittadini sono costretti a pagare oltre alla bolletta statale anche quella per il generatore. Si spiega così l'esasperazione delle donne libanesi, la maggior parte casalinghe per mancanza di offerte di lavoro, tra le prime a scendere in piazza. Anche le casalinghe sciite, che vivono nel quartieri controllati da Hezbollah, hanno deciso di sfidare il leader del partito armato, Hassan Nasrallah, rimanendo nelle tende piantate davanti ai palazzi del potere. Molte sono finite in ospedale a causa delle manganellate ricevute dai miliziani del partito dopo aver disobbedito all'ordine dell'ayatollah di rientrare a casa impartito in diretta tv. A rimpiazzarle sono arrivate le figlie e le amiche. Per il misogino clero sciita asservito a quello iraniano, la disobbedienza femminile e un doppio smacco. Ed è un affronto inedito per tutta la casta politica, arroccatasi nella propria torre d'avorio, il fatto che le donne di ogni confessione si siano alleate per chiedere una svolta epocale che farebbe saltare un quadro popolato quasi esclusivamente da uomini corrotti che hanno usato gli aiuti internazionali per riempirsi le tasche e acquistare armi.
Roberta Zunini

(L'Espresso 10 novembre)