sabato 30 novembre 2019

Concita De Gregorio
Ho conosciuto il futuro primo rabbino donna d'Italia
Con lei abbiamo trovato la parola cha indica il genitore che ha perso un figlio. Di questo parla anche Il colibrì, dove il protagonista si muove senza sosta per non farsi travolgere dall'uragano della vita

HO CONOSCIUTO MIRIAM CAMERINI per caso, camminando per le strade di Vicenza durante un importante festival dedicato alle religioni, il Festival Biblico. Ho seguito la musica, come nella favola del Pifferaio, e mi sono trovata di fronte a una ragazza magica piena di capelli, di occhi, di sorrisi e di mani che, vestita di verde, cantava in ebraico melodie a me ignote con voce potente e antica. Sono rimasta fino alla fine, incantata. Ho scoperto così che Miriam, nata a Gerusalemme, vive a Milano dove cura spettacoli teatrali e musicali, recita, canta e studia cultura ebraica. Si avvia, nel pieno dei suoi trent'anni, a essere il primo rabbino donna in Italia. Con la futura rabbina, finito il concerto, abbiamo parlato di cibo: Ricette e precetti, il suo libro, intreccia la tradizione religiosa e la memoria familiare in una storia che, si sa, inizia con un morso di troppo a una mela. Divieti, obblighi, devozione, ribellione. Il dolce preparato da Noè sull'Arca, per consumare gli avanzi che è vietato - è un peccato! - buttare. Parole piene di acca aspirate e di cappa sonore, l'origine delle parole, la storia delle parole e le ragioni che le hanno portate fin qui. Siamo così arrivate alla "parola scomparsa", e di questa abbiamo parlato di nuovo quando dopo molti mesi ci siamo reincontrate: «Sai la parola mancante di cui mi parlavi?», mi ha detto. Una mia antica ricerca, dai tempi in cui scrivevo Mi sa che fuori è primavera: manca la parola che indica il genitore che ha perso un figlio. Esiste in ebraico, shakul, e in altre lingue antiche. Il sanscrito, l'arabo. È scomparsa nelle lingue moderne. «Ne ho parlato con mio padre», mi ha detto Miriam, «e ci siamo ricordati un testo, L'elegia giudeo-italiana commentata da Sara Natale, in cui si usa la parola "desfigliata". Tragica e bella, rende l'idea dell'ebraico shakul. Desfigliata. L'unica volta in cui la lingua italiana dà un posto, una casa, alla condizione dei genitori orfani di figli. Devo subito scriverlo a Sandro Veronesi, che nel suo potente e conturbante ultimo romanzo, Il Colibrì, dedica molte pagine proprio a questo. Leggetela, se volete farvi un regalo, la storia di questo padre, Marco Carrera: il colibrì che si muove senza sosta per restate saldo nell'uragano della vita.

L'elegia giudeo-cristiana, l'incontro delle religioni, la parola desfigliata e Miriam mi hanno fatto tornare in mente, per assonanza, la bellissima vita di Trotula de Ruggiero, maestra della scuola medica salernitana che nell'anno Mille è stata medico stimato e generoso. Anziché essere bruciata come strega, come alle donne che sapevano di medicina (che sapevano, in generale) accadeva in quel tempo, Trotula ha fondato la ginecologia moderna e ha scritto un trattato memorabile, anzi due. Del primo - Trotula maior, Sulle malattie delle donne - sapevo dalla biografia di Paola Presciuttini intitolata, appunto, Trotula. Giorni fa Agnese Manni, editrice, mi ha consegnato l'altro, il Trotula minor. L'armonia delle donne, un trattato medievale di cosmesi e cura del corpo. Come eliminare le rughe, i peli superflui, l'alitosi, come fare "ut virgo putetur que corrupta fuit", ossia come riacquistare la verginità. Non fatelo con polvere di vetro, suggerisce Trotula, perché fa male a voi e a lui. Piuttosto, spiega di seguito, ecco come. Irresistibile.

Concita De Gregorio sarebbe stata una pianista se non si fosse innamorata molto giovane di un'altra tastiera. Per fortuna. Non aveva talento per il piano, ma resta convinta che la vita sia musica, stare in ascolto e trovare il ritmo. Legge tutto il tempo, da più di 30 anni racconta la politica e altre storie. Gli ultimi libri si intitolano Nella notte (Feltrinelli) e In tempo di guerra (Einaudi).
La sua mail è casamatta@repubblica.it

(D la Repubblica, 16 NOVEMBRE 2019)