America Latina, inferno per gli attivisti
Per i difensori dei diritti umani l'America latina non è decisamente un continente ospitale. In base al nuovo rapporto dell'organizzazione irlandese Front Line Defenders, dei 304 attivisti uccisi nel 2019 in 31 paesi - in particolare per la preservazione dell'ambiente, la lotta per la terra, i diritti indigeni e Lgbt - ben due terzi appartengono infatti ai paesi latinoamericani, i quali, nella classifica dei luoghi più pericolosi, occupano quattro dei primi cinque posti.
Una triste supremazia minacciata appena dalle Filippine, al secondo posto con 43 morti dietro la Colombia, leader indiscusso tra i paesi in cui la difesa dei diritti umani si paga con la morte: 106 gli attivisti assassinati (benché, secondo i dati dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani, i casi dovrebbero essere in realtà 120). Nell'ultimo gradino del podio appare l'Honduras con 31 morti (quattro volte in più rispetto al 2018), seguito da Brasile e Messico a pari merito con 23 e dal Guatemala con 15.
Secondo il rapporto, inoltre, nell'85% dei casi, le vittime avevano già ricevuto minacce, o individualmente o all'interno dell'organizzazione o della comunità di appartenenza. O addirittura si erano già registrate precedenti aggressioni, con l'uccisione di colleghi o di altri difensori dei diritti senza che ciò sia evidentemente bastato a impedire altre morti.
Una strage che, almeno in America latina, appare in larga misura come un effetto collaterale del modello estrattivista dilagante, inteso come processo di accaparramento delle risorse presenti nei territori da parte di grandi interessi nazionali ed esteri, contro gli interessi delle comunità locali. Perché, che si tratti dell'industria degli idrocarburi e dei metalli preziosi, dell'estensione inarrestabile delle monocolture - di soia, palma, canna da zucchero, eucalipto - a scapito di foreste e di comunità indigene e contadine, o delle grandi infrastrutture necessarie all'esportazione delle materie prime, la conseguenza è sempre la stessa: la guerra - da parte, indistintamente, di poteri statali, parastatali e privati - contro chi osa opporsi alla devastazione dell'ambiente e alla rapina dei beni comuni.
Ed è una guerra, quella in generale contro i difensori dei diritti umani, che, ricorda il rapporto, si combatte anche attraverso arresti indiscriminati, azioni «legali», abusi e violenza sessuale.
Claudia Fanti
(il Manifesto 17 gennaio)
Per i difensori dei diritti umani l'America latina non è decisamente un continente ospitale. In base al nuovo rapporto dell'organizzazione irlandese Front Line Defenders, dei 304 attivisti uccisi nel 2019 in 31 paesi - in particolare per la preservazione dell'ambiente, la lotta per la terra, i diritti indigeni e Lgbt - ben due terzi appartengono infatti ai paesi latinoamericani, i quali, nella classifica dei luoghi più pericolosi, occupano quattro dei primi cinque posti.
Una triste supremazia minacciata appena dalle Filippine, al secondo posto con 43 morti dietro la Colombia, leader indiscusso tra i paesi in cui la difesa dei diritti umani si paga con la morte: 106 gli attivisti assassinati (benché, secondo i dati dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani, i casi dovrebbero essere in realtà 120). Nell'ultimo gradino del podio appare l'Honduras con 31 morti (quattro volte in più rispetto al 2018), seguito da Brasile e Messico a pari merito con 23 e dal Guatemala con 15.
Secondo il rapporto, inoltre, nell'85% dei casi, le vittime avevano già ricevuto minacce, o individualmente o all'interno dell'organizzazione o della comunità di appartenenza. O addirittura si erano già registrate precedenti aggressioni, con l'uccisione di colleghi o di altri difensori dei diritti senza che ciò sia evidentemente bastato a impedire altre morti.
Una strage che, almeno in America latina, appare in larga misura come un effetto collaterale del modello estrattivista dilagante, inteso come processo di accaparramento delle risorse presenti nei territori da parte di grandi interessi nazionali ed esteri, contro gli interessi delle comunità locali. Perché, che si tratti dell'industria degli idrocarburi e dei metalli preziosi, dell'estensione inarrestabile delle monocolture - di soia, palma, canna da zucchero, eucalipto - a scapito di foreste e di comunità indigene e contadine, o delle grandi infrastrutture necessarie all'esportazione delle materie prime, la conseguenza è sempre la stessa: la guerra - da parte, indistintamente, di poteri statali, parastatali e privati - contro chi osa opporsi alla devastazione dell'ambiente e alla rapina dei beni comuni.
Ed è una guerra, quella in generale contro i difensori dei diritti umani, che, ricorda il rapporto, si combatte anche attraverso arresti indiscriminati, azioni «legali», abusi e violenza sessuale.
Claudia Fanti
(il Manifesto 17 gennaio)