di Gad Lerner
Pochi
lo ricordano, ma il primo ad allestire la messinscena di una spedizione
punitiva sotto la residenza di una persona indicata come meritevole di
pubblica persecuzione fu Matteo Salvini, nel maggio 2014.
Si
trattava di Elsa Fornero. «Meno male che non è in casa perché mi
prudono le mani», dichiarò minaccioso, a favore di telecamera, il futuro
ministro dell’Interno. Che due anni dopo replicò l’appostamento dei
suoi seguaci sotto il domicilio dell’ex ministra.
La
pratica dell’intimidazione squadristica – sappiamo dove abiti, d’ora in
poi non vivrai più tranquillo – trova i suoi cattivi maestri nel
presente, non solo nel passato. Non possono fingere stupore se ora
assistiamo al passaggio dalla violenza verbale, sparsa nei social e in
tv, all’assedio fisico rivendicato come espressione di collera popolare.
La
svastica abbinata alla scritta "troia negra" dietro la vetrina in
frantumi nel bar di una cittadina italiana di origine marocchina, a
Rezzago; la stella di Davide usata come marchio identificativo sulla
porta di una ex deportata nel lager di Ravensbruck, a Mondovì; il "crepa
sporca ebrea" scritto sul muro di un’abitazione di Torino: sono i
richiami storici, i feticci di un’aggressività latente cui si è concessa
licenza di parola; e quindi ne approfitta puntando al salto di qualità.
Prendono i simboli del Male e li brandiscono in sintonia con l’auspicio
diffuso della cattiveria al potere, sulla scia del plauso che
riscuotono nella pubblica arena gli spacciatori del verbo trucido,
presentato come voce del popolo.
Non a caso, in questi giorni, anche gli asiatici vengono fatti oggetto di sputi, minacce e offese in diverse città italiane.
Trattati
come untori, colpevoli di impestarci con il coronavirus che l’ignoranza
e la xenofobia descrivono annidato perfino nelle cucine dei ristoranti
cinesi.
C’è una componente sadica nella parodia di caccia all’uomo orchestrata intorno alla Giornata della Memoria.
Confida
nel piacere che può suscitare nell’animo degli incarogniti. Li lusinga
con l’umiliazione dei malcapitati presi a bersaglio, vivi o morti che
siano. Le imprese di questa nuova forma di squadrismo assecondano una
tendenza diffusa nella società dell’incertezza, se è vero che ormai
anche le fiction di maggior successo, non solo i talk show, prediligono
nel ruolo di protagonisti i rough hero, che più sono infami più ci
piacciono. Perché allora Hitler e i nazisti non dovrebbero ritrovare il
posto che si meritano in questa allegoria di guerra sociale, etnica e
culturale, per il momento (ma fino a quando?) ancora incruenta?
«C’è
tanta omertà in giro, sembra quasi che sia colpa mia se mi hanno
distrutto il bar», ha detto sconsolata Madiha, colpevole di non essere
una bresciana autoctona. Mentre la torinese Maria per ora ha deciso di
non cancellare la scritta antisemita per ricordarci che «la storia
antica a volte ritorna».
Ci
ha messo una settimana Facebook per decidersi a rimuovere il video
della citofonata bolognese di Salvini, contornato da giornalisti
sorridenti che lo scambiavano forse per un genio della comunicazione
anziché incalzarlo come propagandista dell’odio. Il guaio è che i
partiti dell’estrema destra hanno imparato a usare l’espediente retorico
di fare sfoggio dei principi liberali per rivendicare il diritto di
schernire e minacciare i loro capri espiatori.
Non a caso si sono battuti per l’abrogazione della legge Mancino che punisce l’incitamento all’odio razziale.
Troppe volte ignorata per timore di ledere la libertà d’espressione. Col risultato che stiamo passando dalle parole ai fatti.
La Repubblica 29/01